San Prospero, omelia del Vescovo Massimo Camisasca e #fotogallery della Messa celebrata per il Santo Patrono

Pur nel rispetto del DPCM volto a limitare la diffusione del Covid, era gremita questa mattina la chiesa di San Prospero, patrono di Reggio Emilia, alla quale, oltre ai cittadini, hanno partecipato autorità e istituzioni.
La nostra città non ha potuto festeggiare come sempre questa ricorrenza, ogni hanno caratterizzata da un calendario ricco di iniziative e il centro storico animato da bancarelle natalizie e stand con prodotti tipici del territorio.
Il Vescovo, oltre ad aver ribadito il discorso alla città proposto durante la messa di mezzanotte (leggi qui) ha proposto l’omelia di cui riportiamo di seguito il testo integrale.

Illustri autorità civili e militari,
Cari fratelli e sorelle,
quest’anno ho voluto dedicare il mio Discorso alla Città e alla Diocesi in occasione della solennità del nostro Santo Patrono a un tema che ritengo particolarmente importante per noi e per l’intera società: In principio la parola. Imparare a leggere e scrivere nell’epoca di internet. Ho scritto un testo, che vi sarà distribuito al termine della celebrazione, dal quale traggo ora alcuni spunti di riflessione.
Le trasformazioni e le crisi che la società sta attraversando a più livelli sono riconducibili a un cambiamento radicale nel rapporto tra l’uomo e la realtà, che passa anche attraverso il ruolo attribuito alla cultura e, prima ancora, alla parola scritta, letta, pronunciata. Quale peso ha quest’ultima nel rapporto della persona con sé, con gli altri e con il mondo?
Il linguaggio e la parola sono strumento privilegiato del nostro rapporto con gli altri: la parola è relazione. La crisi del suo utilizzo può dunque tradursi in una crisi della relazione nella conoscenza e negli affetti, nell’educazione, nella comunicazione pubblica e sociale. Ma la parola è anche la strada del rapporto con noi stessi e della comprensione di noi stessi. Le sfumature della lingua ci permettono di nominare e riconoscere le sfumature della nostra esperienza: di coglierla con consapevolezza, di approfondirla, di farla veramente nostra. Quando riusciamo a pensare e dire qualcosa, è come se ce ne riappropriassimo più in profondità. Un rapporto impoverito con le parole corrisponde a un rapporto impoverito con la realtà.

In questo quadro non si può ignorare la presenza delle nuove tecnologie e degli inediti codici comunicativi ed espressivi di cui esse sono portatrici, con le opportunità e le criticità che ne derivano. Il loro uso massivo e capillarmente diffuso introduce nelle pratiche di vita e nella mentalità corrente nuovi rapporti con la parola e con l’immagine. Proprio perché la comunicazione è relazione e conoscenza, il cambiamento del modo di comunicare cambia anche il modo di conoscere e relazionarsi.

Queste riflessioni si sono fatte più pressanti durante il periodo di confinamento dovuto all’emergenza sanitaria, che ha visto numerosi ambiti della nostra vita “trasferirsi” online. Tra questi penso in modo particolare alla scuola, con l’introduzione della prassi della didattica a distanza e con la ridefinizione del tipo di proposta offerta agli alunni. Nessuno può prevedere oggi quale sarà, nel futuro immediato, l’impatto della tecnologia sull’insegnamento; né quale sarà la capacità dei docenti di maturare connessioni – anche dialettiche – tra la didattica in presenza e quella a distanza, o quale sarà la risposta dei ragazzi. Non intendo ovviamente demonizzare l’introduzione degli strumenti informatici nei processi di insegnamento e apprendimento. Essi non rappresentano solo un problema, ma una grande opportunità. Tuttavia, essi non sono in grado di generare automaticamente novità “buone”. Il loro utilizzo deve essere accompagnato e modulato dentro un cammino che non può prescindere dall’educazione del pensiero e della parola, della lettura e della scrittura.

La nostra epoca – ricca di immagini e di slogan, ma povera di parole meditate – è pervasa dall’urgenza di un’educazione alla parola: un insegnamento della lettura, della scrittura, del parlare. La crisi della parola è, al suo fondo, crisi dell’educazione. Non avere parole, o non averne padronanza, significa essere privati di una fondamentale chiave di lettura della realtà, significa perdere possibilità di pensiero, di conoscenza e di relazione, significa essere meno liberi.

Il libro della Genesi definisce il dar nome alle cose come uno dei gesti originari che Dio suggerisce all’uomo (cfr. Gen 2,19). Dare nome, infatti, non significa soltanto far entrare una persona o una cosa nell’orizzonte della propria vita e, in un certo senso, del proprio possesso, ma anche riconoscere ad essa una dignità distinta dalla propria eppure in relazione con sé. Se l’uomo esistesse da solo non avrebbe bisogno della parola. Dio, che pure è l’unico, è relazione fin dall’origine e perciò generatore della Parola. Da questo punto di vista, l’evento creativo di Dio, così com’è stato espresso nella tradizione giudaica e riletto nella tradizione cristiana, esprime l’archetipo di ogni evento creativo e di ogni comunicazione.

La rivoluzione cibernetica, che subito dopo la II guerra mondiale prometteva cambiamenti radicali nel campo dell’industria e della ricerca, si è rivelata poi, con la nascita di internet e dei social, una rivoluzione di ben più vasta portata. Un’offerta di conoscenze potenzialmente infinita che ha creato nuove possibilità di accesso al sapere, soprattutto per studiosi, ricercatori, scienziati. Essa, nello stesso tempo, ha però generato – proprio per l’immenso numero di informazioni, notizie e immagini messe a disposizione – una relativizzazione del sapere, legata all’incontrollabilità delle fonti. Conosciamo tutti il fenomeno delle fake news.

Assistiamo perciò al duplice lato “politico” dell’era di internet: da una parte, un’élite relativamente ristretta di persone può aumentare in modo considerevole il proprio potere avendo a disposizione sempre nuove conoscenze e nuovi canali di ricerca; dall’altro, un infinito numero di abitanti della terra vive nell’illusione di un potere da raggiungere, mentre in realtà la sua vita è governata da centri invisibili e lontani attraverso algoritmi che determinano i risultati delle ricerche personali, attraverso la pubblicità, il mercato e un controllo sempre più vasto della vita privata.

In questo contesto emerge, ancor più potentemente che nei decenni e nei secoli passati, l’importanza della lettura e della scrittura e, in ultima analisi, del pensiero critico per ogni persona. Chi è veramente svantaggiato nel nostro tempo? Chi non rincorre tutte le novità dell’era tecnologica? No, soprattutto chi non sa leggere e scrivere. Chi non è stato aiutato a prendere consapevolezza e a godere dei tesori che la storia passata e presente del suo popolo potrebbe mettere nelle sue mani attraverso la lettura e la scrittura. Tesori di storia, di arte figurativa, di letteratura, di poesia, di musica, di ricerca scientifica. È chiaro che non possiamo scoprire tutto da soli. Molto lo riceviamo dagli altri. La lettura e la scrittura, quali strade privilegiate dello sviluppo del pensiero, ci danno la possibilità di vagliare l’autorevolezza delle autorità e di verificare la corrispondenza della loro proposta con ciò che la natura e la storia dell’uomo ci presentano come valori ed esigenze ineliminabili: la conoscenza di Dio, la conoscenza di se stessi, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso. Senza una coscienza critica che non distrugga il passato, che riconosca il valore delle autorità e che nello stesso tempo verifichi ogni sapere per poterlo rigenerare dall’interno, non è possibile un vero avanzamento della storia, la creazione di un vero umanesimo.

Oggi si parla di trans-umanesimo, di una civiltà da cui l’uomo scomparirebbe per essere sostituito dalle macchine da lui stesso create, dotate perciò di un’intelligenza artificiale, o per essere “ibridato” con esse. Sarebbe paradossale che le macchine, create per essere utili all’uomo e alla sua missione nel mondo, finissero per distruggere il loro inventore. Sono prospettive inquietanti e non auspicabili. In realtà, la storia del linguaggio e del ragionamento umano, che nascono insieme al pensiero e che ci servono per conoscere e comunicare la realtà, mostrano che questi scenari distopici sono impossibili. Non esiste una coscienza artificiale e nessuna macchina, perciò, potrà sostituire completamente l’uomo. Un mondo senza l’uomo non è un mondo post-umano, è un mondo disumano, un deserto che perde la sua ragion d’essere. Il mondo, infatti, è stato voluto e creato da Dio come giardino per l’uomo.

Ci sono ragioni logiche che confermano l’assoluta unicità e insostituibilità dell’uomo. Ma qui voglio ricordare le ragioni spirituali che confermano la concezione dell’uomo che nasce dal grande evento dell’Incarnazione. Se anche fosse possibile l’intera sostituzione dell’uomo con la macchina, almeno un uomo resterebbe non sostituibile: il Figlio di Dio fatto uomo, sottratto ora alla logica del tempo e dello spazio, ma non volatilizzato. Il corpo risorto di Cristo ci parla della perennità dell’uomo sulla terra e oltre la fine del tempo.

Platone, nella lettera VII, parla del primato assoluto della comunicazione orale – vissuta nella convivenza guidata da un’autorità – come strada alla ricerca della verità. La parola scritta e stampata, direbbe oggi Platone, deve essere al servizio di questa struttura originaria del sapere che è la comunità in presenza (come si usa dire oggi) attorno a un testimone, ad una persona adulta (più per esperienza che per età) che vuole comunicare ad altri il tesoro che lo costituisce affinché a loro volta lo possano trovare e portare a frutto.

L’era tecnologica è perciò, più di ogni altra era, un tempo che necessita di educazione, soprattutto di educazione della libertà. Data l’invasività delle immagini e il rischio di chiusura in se stessi che la cultura dei social porta con sé, ciò che sopra ho descritto come rapporto educativo rivela più che mai la sua preziosità. Il nostro tempo dovrà essere il tempo di colui o colei che attraverso le proprie conoscenze riesce a veicolare il senso della vita e le strade per raggiungerlo. Viviamo pericolosamente in un momento in cui non esistono più né passato né futuro, ma solo l’istante presente. Questa affermazione, che sembrerebbe essere simile a quella fatta da Agostino nel libro XI delle sue Confessioni, ne è in realtà agli antipodi. Per il vescovo di Ippona, infatti, parlare del presente come momento unico del tempo non voleva escludere la memoria, né cancellare la speranza, ma anzi racchiuderle tutte in un unico atto di coscienza presente. Comprendiamo così l’importanza fondamentale della scuola per i nostri anni, ma anche della comunità familiare e di ogni altra comunità: esse permettono al ragazzo e al giovane di conoscere il passato per poter decidere quali sono i rami secchi da tagliare e quali, invece, quelli vivi da innestare verso un nuovo frutto. In tutto ciò, scrittura e lettura hanno un posto paradigmatico: esse infatti, sempre, raccolgono in se stesse esperienze del passato, comprensione del presente e apertura a nuovi orizzonti.

La contemplazione della Parola incarnata a cui l’Avvento ci invita, possa essere il paradigma di un nuovo e più vero rapporto con le parole.

Amen.

Di seguito pubblichiamo la Fotogallery della celebrazione a cura di Fabio Zani.

[ngg src=”galleries” ids=”204″ display=”basic_thumbnail”]