E’ San Prospero, Patrono di Reggio Emilia. Il discorso del Vescovo alla città: “Imparare a leggere e scrivere nell’epoca di internet”

IN PRINCIPIO LA PAROLA

Imparare a leggere e scrivere nell’epoca di internet
Discorso alla città
San Prospero 2020

Introduzione

La passione per la parola pensata, letta, scritta e pronunciata viene da lontano nella mia vita: mi ha accompagnato fin dall’infanzia e dalla giovinezza. Su questo dato biografico si è poi innestata un’urgenza più profonda. Le generazioni più giovani – ma questo fenomeno tocca anche gli adulti – manifestano una crescente difficoltà nei riguardi della lettura e della scrittura e, più in generale, della parola, del linguaggio, del pensiero astratto.

Il linguaggio e la parola sono strumento privilegiato del nostro rapporto con la realtà e con gli altri: la parola è relazione. La crisi del suo utilizzo può dunque tradursi in una crisi della relazione nella conoscenza e negli affetti, nell’educazione, nella comunicazione pubblica e sociale. Ma la parola è anche la strada del rapporto con noi stessi e della comprensione di noi stessi. Le sfumature della lingua ci permettono di nominare e riconoscere le sfumature della nostra esperienza: di coglierla con consapevolezza, di approfondirla, di farla veramente nostra. Quando riusciamo a pensare e dire qualcosa, è come se ce ne riappropriassimo più in profondità.

La comunicazione è conoscenza: conosciamo mentre comunichiamo. Per questo parliamo con noi stessi per chiarirci le idee (in inglese pensare tra sé e sé si dice “dico a me stesso”, I say to myself). Il legame tra parola e comunicazione, la relazione e la conoscenza è così forte che la filosofia medievale indicava i rapporti tra le Persone divine come amicizia o comunicazione. La fatica della parola (pensata, scritta, pronunciata) tocca quindi ogni aspetto della nostra vita. Un rapporto impoverito con le parole corrisponde a un rapporto impoverito con la realtà.

In questo quadro non si può ignorare la presenza delle nuove tecnologie e degli inediti codici comunicativi ed espressivi di cui sono portatrici, con le opportunità e le criticità che ne derivano. Il loro uso massivo e capillarmente diffuso introduce nelle pratiche di vita e nella mentalità corrente nuovi rapporti con la parola e con l’immagine.

Le trasformazioni e le crisi che la società sta attraversando a più livelli sono riconducibili a un cambiamento radicale nel rapporto tra l’uomo e la realtà, che passa anche attraverso il ruolo attribuito alla cultura e, prima ancora, alla parola scritta, letta, detta. Quale peso ha quest’ultima nel rapporto della persona con sé, con gli altri e con il mondo? Proprio perché la comunicazione è relazione e conoscenza, il cambiamento del modo di comunicare cambia anche il modo di conoscere e relazionarsi.

Queste riflessioni si sono fatte più pressanti durante il periodo di confinamento dovuto all’emergenza sanitaria, che ha visto numerosi ambiti della nostra vita “trasferirsi” online. Tra questi penso in modo particolare alla scuola, con l’introduzione della prassi della didattica a distanza e con la ridefinizione del tipo di proposta offerta agli alunni. Nessuno può prevedere oggi quale sarà, nel futuro immediato, l’impatto della tecnologia sull’insegnamento; né quale sarà la capacità dei docenti di maturare connessioni – anche dialettiche – tra la didattica in presenza e quella a distanza, o quale sarà la risposta dei ragazzi. Non intendo ovviamente demonizzare l’introduzione degli strumenti informatici nei processi di insegnamento e apprendimento. Essi non rappresentano solo un problema, ma una grande opportunità. Tuttavia, non sono in grado di generare automaticamente novità “buone”. Il loro utilizzo deve essere accompagnato e modulato dentro un cammino che non può prescindere dall’educazione del pensiero e della parola, della lettura e della scrittura.

I

PAROLA, LINGUAGGIO, PENSIERO, REALTÀ

Vorrei rivolgere l’attenzione innanzitutto alla parola: essa ci rende unici nell’universo, ci contraddistingue in quanto uomini. Benché il mondo animale abbia codici espressivi molto forti e, a suo modo anche quello vegetale, l’uomo emerge nel cosmo per il suo essere dotato di parola. In questo si rivela la sua dignità che è rapporto con l’infinito di cui vive la persona umana, quand’anche non sapesse esprimersi attraverso le parole. Normalmente, tuttavia, l’uomo si esprime con la parola perché è dotato di ragione e intelligenza, stabilisce nessi con le proprie esperienze, sempre in relazione ad altri e ad altro. La parola risulta così strettamente connessa alla sua capacità conoscitiva e alle diverse forme del pensiero.

Il potere della parola

Numerose discipline (antropologia, storia della cultura, filosofia del linguaggio) concordano nel ritenere che alle origini dell’umanità la parola sia stata concepita in modo “magico”. Gli uomini delle epoche arcaiche vivevano un’esperienza del mondo molto diversa dalla nostra, nella quale probabilmente faticheremmo a immedesimarci. Per loro, spiega Ernst Cassirer, «il mondo non è una cosa morta e muta. Esso ode e comprende. Perciò [nella loro prospettiva], se le potenze della natura vengono invocate nel modo giusto, non possono rifiutare il loro aiuto. Nulla può resistere alla parola magica»1. Per costoro la parola aveva dunque un potere di intervento concreto e diretto sulla realtà. Potremmo paragonare questa concezione, prosegue Cassirer, a ciò che la psicologia dello sviluppo attesta a riguardo delle prime fasi di vita del bambino. «Assai prima che abbia imparato a parlare, il bambino scopre altri mezzi più semplici per comunicare con gli altri. Le voci provocate dall’irritazione, dal dolore, dalla fame, dall’angoscia o dalla paura, rilevabili in tutto il mondo organico, qui cominciano ad avere un significato diverso. Non sono più semplici reazioni istintive ma vengono usate in modo consapevole e voluto. Quando viene lasciato solo il bambino chiede, con suoni più o meno articolati, la presenza della madre o della governante e si accorge che queste richieste hanno l’effetto desiderato»2. Owen Barfield, amico e ispiratore di J.R.R. Tolkien, diceva che l’epoca primitiva è segnata da una “partecipazione originaria” che unisce la parola, la realtà, e il significato, che spesso è significato divino3.

Crescendo, il bambino comprende gradualmente che il sopraggiungere della madre o della nutrice non è un evento prodotto direttamente ed ex novo dalla sua parola. Analogamente, l’uomo “arcaico” si rende progressivamente conto che la natura si dispiega secondo leggi proprie, che non sono influenzate da formule vocali o espressioni umane. La comprensione della realtà si accompagna così a una comprensione circa la parola. Quest’ultima – pur non agendo in modo sovrannaturale o magico sulle cose e sugli eventi – non è priva di capacità, ma possiede un potere persino maggiore.

Possiamo riconoscere lo stupore per questa scoperta nel pensiero logico-filosofico delle origini, la cui nascita coincide con la progressiva appropriazione da parte dell’uomo delle vere potenzialità del linguaggio. È celebre, ad esempio, la distinzione operata da Eraclito di Efeso (VI-V sec. a. C.): nel momento stesso in cui identifica come fondamento e principio della realtà il Lógos – che è ragione, parola, pensiero, linguaggio –, egli divide il genere umano in dormienti, prigionieri delle informazioni incerte fornite dai sensi4 e desti, che lasciandosi guidare dal proprio lógos accedono a una dimensione universale e immutabile di comprensione della realtà.

La parola – e il pensiero che attraverso di essa si esprime e tramite essa si struttura – ci introduce alla comprensione della realtà e delle leggi che la sorreggono. Ci consente di superare i dati sensibili – talvolta illusori, sempre mutevoli e particolari – e di astrarre, collegare, combinare: ci dà accesso a una dimensione universale, in cui riposa la verità delle cose e allo stesso tempo fornisce a questi universali la possibilità di manifestarsi o incarnarsi. Questa convinzione circa la parola corrisponde alla certezza che esista una struttura ordinata della realtà, di cui il pensiero e il linguaggio umani sono immagine o espressione, o rispetto alla quale sono almeno omogenei. Di qui un sostanziale ottimismo rispetto alle nostre possibilità di conoscenza: nel mondo c’è un ordine che il nostro pensiero può cercare, riconoscere e comprendere, e che la nostra parola può esprimere.

Questa posizione trova una sintesi compiuta nel pensiero platonico. Platone (428/427 a.C. – 348/347 a. C.) rigetta tanto le posizioni ingenuamente naturalistiche – per cui il fatto stesso di pronunciare un termine equivarrebbe a cogliere l’essenza dell’ente che esso denota – quanto quelle convenzionalistiche – secondo le quali non esiste alcun rapporto tra il linguaggio e la realtà, e le parole che utilizziamo sono imposte arbitrariamente alle cose. Il filosofo ateniese guarda a parole e nomi come a strumenti – non a “essenze” in sé – finalizzati però a dare voce alla verità, alla realtà: dunque apparentati alla natura delle cose5. A suo parere, infatti, ogni ente – particolare, finito, soggetto al nascere, al divenire e al perire – poggia su un’essenza metafisica, trascendente, eterna: le idee, strutture razionali ed immateriali che fondano il mondo sensibile e sono situate nell’Iperuranio, un “luogo al di sopra del cielo”6. È questa essenza eterna ed ideale il vero oggetto del pensiero, del linguaggio e dei discorsi che tramite le parole produciamo: il senso e il fine del nostro parlare fanno tutt’uno con la ricerca del vero.

Proprio per il potere immenso della comunicazione nella conoscenza della realtà, emerge presto anche la possibilità di piegare l’uso della parola a scopi diversi dalla ricerca della verità. Nella filosofia greca questo passaggio è rappresentato dall’impatto dirompente della predicazione sofistica7. La “sapienza” professata dai sofisti consiste innanzitutto in una visione relativistica e scettica della realtà. Secondo pensatori come Protagora, Gorgia o Ippia, il “reale” è continuo divenire e perenne mutevolezza, non abitato da alcun tipo di ordine o di valore, non ancorato ad alcun fondamento assoluto: pertanto ci sfugge, non si lascia comprendere dal nostro pensiero né dire dal nostro linguaggio. Al di fuori della mera apparenza non possiamo conoscere nulla dei fenomeni contraddittori e mutevoli che sperimentiamo. Non esiste, dunque, la verità; se anche esistesse non potremmo conoscerla; se anche potessimo conoscerla, non potremmo esprimerla. Esistono solo “verità” parziali, legate alle circostanze del momento, alla situazione particolare, al sentire del soggetto: ciò che è vero per me in questo istante può non esserlo per un’altra persona, o per me stesso in un momento diverso. Questo il significato dell’uomo-misura nel celebre adagio attribuito a Protagora di Abdera (V sec. a. C.): «di tutte le cose è misura l’uomo: di quelle che sono, per ciò che sono, di quelle che non sono, per ciò che non sono»8.

Da questa visione della realtà e della conoscenza discende una concezione convenzionale o nominalista del linguaggio e della parola. Se non esiste “la” verità; se non c’è rapporto tra gli enti fuori di noi, i concetti e le parole con cui li classifichiamo e nominiamo; se non esiste un ordine di cui il nostro pensiero e le nostre parole sono specchio e manifestazione, allora il linguaggio non è altro che costruzione arbitraria al servizio del fine di ciascuno, uno strumento di potere.

Almeno da questo punto di vista, la nostra è un’epoca sofistica: l’uomo contemporaneo pare aver abbandonato consapevolmente ogni preoccupazione per la verità ed ogni convinzione circa la sua esistenza. Certamente la nostra società è oggi una società plurale. Questo è un dato che va accolto e che ci obbliga a ripensare le modalità della convivenza. Ma pluralismo non significa relativismo, in cui tutte le opinioni in linea di principio si equivalgono. Se un’opinione vale quanto un’altra, come potremo stabilire quale deve prevalere nel discorso pubblico e quale deve orientare le nostre decisioni e il nostro agire? A queste condizioni, nel dibattito non emergerà l’idea “vera” o “più vicina alla verità”, ma quella che riesce ad imporsi sulle altre facendo appello all’emotività degli uditori e persino avvalendosi di “atti di forza” più o meno sottili, come la censura di determinate posizioni dall’orizzonte mediatico o la loro delegittimazione preventiva, fino alla loro esplicita proibizione per legge.

La negazione della verità e la visione convenzionale del linguaggio mostrano qui il loro inevitabile cortocircuito. Se il nostro linguaggio non può esprimere alcuna verità, siamo destinati a prevaricare l’uno sull’altro o, nella migliore delle ipotesi, a pronunciare discorsi autoreferenziali, senza poter veramente comunicare tra noi. Bisogna riconoscere anche che il tema del rapporto tra realtà, significato, pensiero, verità e linguaggio si carica ai giorni nostri di ulteriori e inedite sfumature: di posizioni estreme, secondo le quali – poiché non esiste realtà e verità, e poiché il linguaggio è costruzione arbitraria dell’uomo – possiamo e dobbiamo manipolare il linguaggio stesso, per retroagire sulla realtà e modificarla a nostro piacimento, dirigerla in corrispondenza dei nostri progetti. Per spiegarmi, prenderò le mosse da un aneddoto.

***

Nel 1977, in occasione del suo discorso di insediamento presso la cattedra di semiologia letteraria al Collège de France, il celebre intellettuale Roland Barthes proponeva una provocatoria riflessione sul linguaggio quale dimensione storica e sociale in cui la parola vive.

Egli affermava che il linguaggio e, addirittura, la lingua – cioè l’insieme astratto delle regole su cui si organizzano gli atti di parola – nascondono una forma di coercizione: la lingua infatti si struttura su un insieme di regole (che spaziano dalla posizione del soggetto nella frase all’utilizzo obbligato dei pronomi, del maschile o del femminile, dei tempi verbali e della loro consecutio)9. Per parlare dobbiamo inevitabilmente aderire a tali norme (grammaticali, ortografiche etc.) e sottometterci ad esse. Le regole della grammatica e della sintassi ci costringono a disciplinare ogni nostro pensiero, a incasellarlo entro strutture che ci precedono. Ogni volta che usiamo il linguaggio ci sottomettiamo automaticamente a quelle strutture; e con il nostro semplice parlare le imponiamo agli altri e alla realtà fuori di noi. Per questi motivi l’intellettuale francese arrivava a giudicare la lingua stessa, per sua natura, «semplicemente fascista»10.

Se vogliamo essere liberi, dobbiamo riconoscere che «non si può avere libertà che fuori dal linguaggio»11. O, al limite, che il linguaggio deve essere destrutturato e reinventato, scardinando le regole che lo costituiscono (e che Barthes giudica convenzionali, arbitrarie, non agganciate ad alcuna “realtà” e, dunque, sempre riformabili). Era la riformulazione sociale di quanto aveva detto Nietzsche in termini metafisici: «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora nella grammatica»12.

Questa sensibilità, negli anni ’70 ancora prerogativa quasi esclusiva del mondo intellettuale e accademico, è oggi ampiamente diffusa. Ne è impregnata, ad esempio, la costruzione del lessico nel dibattito pubblico o mediatico su temi eticamente o politicamente sensibili. Rientra in questa logica la progressiva sostituzione di alcune espressioni con altre, considerate più “neutrali” e meno giudicanti (non più “aborto”, ma “interruzione volontaria di gravidanza”; non “eutanasia”, ma “suicidio assistito”; gli esempi sono purtroppo numerosi). Della stessa visione è imbevuta l’insistenza sull’adozione di linguaggi cosiddetti “inclusivi”, che rifiutano espressamente di attribuire all’individuo una realtà che egli non percepisce corrispondente a sé; di qui, ad esempio, la sostituzione del maschile e del femminile grammaticali con espressioni indefinite o di genere neutro, o con simboli indeterminati che ciascuno possa “riempire” di volta in volta con il contenuto in cui ritiene di rispecchiarsi in quel momento; o, ancora, l’eliminazione di alcuni vocaboli che presuppongono una conformazione duale dell’essere umano in quanto sessuato (“padre”, “madre”, “uomo”, “donna”) e la loro sostituzione con un’ampia gamma di espressioni a vantaggio di chi in tale dualità non si riconosca.

Certamente il linguaggio (così come le singole lingue) tende a evolversi nel tempo, interagendo con la vita dell’uomo. Negli esempi citati, tuttavia, ci troviamo di fronte ad un fenomeno di segno diverso: qui si tratta di sostituzioni che non esprimono l’evolversi della coscienza della realtà, ma vogliono piuttosto determinarla. Il progettare un linguaggio “neutro”, “fluido” o che non esprima alcun tipo di “valore” e ordine si basa sul presupposto che la stessa realtà sia “neutra”, “fluida”, che non porti in sé né ordine né struttura e che, dunque, non vi sia in essa alcun valore che possiamo riconoscere.

Torniamo così al problema di partenza. Il modo in cui guardiamo al linguaggio è inestricabilmente connesso all’idea che abbiamo della realtà. Sono due facce della stessa medaglia. Da questo punto di vista Nietzsche e Barthes hanno perfettamente ragione. Il fatto stesso di pensare e di esprimere il nostro pensiero attraverso un sistema di parole presuppone un ordine, un giudizio: implica un rapporto con le cose e un’attribuzione di valore ad esse, cioè una presa di posizione nei loro confronti. Analogamente, ogni nostro intervento cosciente e pianificato sulle strutture della lingua non è mai neutro o indifferente. Il modo in cui nominiamo le cose è legato inseparabilmente alla nostra comprensione di esse.

La domanda si riapre. Il linguaggio è creazione interamente convenzionale, priva di un legame diretto con le cose; oppure i concetti e i termini che usiamo colgono un riverbero della realtà? La parola è in qualche modo collegata all’essenza di ciò che nomina? Può esprimere o no la verità delle cose? E, più in profondità: esiste la verità? Ha senso, quando pensiamo e parliamo, quando comunichiamo tra noi, cercare la verità e tentare di dirla?

Pensiero, parola, verità

La cultura classica, soprattutto Platone e Aristotele – sapienza che ha trovato una sua sintesi in Agostino di Ippona e Tommaso d’Aquino – ha affermato che la conoscenza è la capacità tipica dell’uomo di entrare in rapporto con qualcosa che egli non è, ma in certo modo anche di identificarsi con questo qualcosa. Potrebbe sembrare una visione datata della conoscenza. In realtà essa fonda una grande apertura. Se sono convinto che sia possibile entrare in rapporto, pur sempre in modo imperfetto, con la verità dell’altro e delle cose, non ho paura di nessuna alterità. Anzi, sono desideroso e curioso di ciò che è diverso da me e che in certo modo mi costituisce.

La teologia patristica e medioevale ha offerto un fondamento teologico alla visione greca della conoscenza, grazie al principio della verità delle cose: ogni cosa è vera, nel senso che porta in sé la verità, ossia la relazione con il cosmo, l’ordine di Dio13. Per la mentalità post-moderna è difficile comprendere questa affermazione. “Ogni cosa è vera” significa che, poiché le cose sono create ed esistono, cioè partecipano dell’essere di Dio, esse sono anche vere. Colui che rende le cose esistenti fa sì che esse siano potenzialmente conoscibili dall’intelletto umano. Nella realtà esiste l’uomo che è capace di conoscerle14. Le cose e la conoscenza umana non sono due mondi separati, ma due poli in continua tensione e relazione reciproca: le cose sono lo spazio del conoscere umano – uno spazio relazionale.

“Ogni ente è vero” significa dunque che la realtà, in quanto creata da Dio, esiste per essere scoperta, accolta e conosciuta dall’uomo. La totalità delle cose esistenti è lo sconfinato orizzonte della capacità conoscitiva umana15. Questa positiva visione del rapporto fra uomo e realtà mai come oggi ha bisogno di essere recuperata, sostenuta ed affermata. Tanta parte della crisi moderna e postmoderna – crisi etica, politica, conoscitiva; crisi di fiducia nella bontà della vita; crisi di speranza – è alimentata dalla sfiducia nella nostra capacità di conoscere la realtà. Ancora una volta ai giorni nostri, come già per la sofistica nel mondo antico, lo scetticismo e il relativismo cognitivo producono spaesamento morale. Tutto ciò deriva da una visione ridotta e parziale della conoscenza: l’uomo si concepisce solo come intelletto e considera il suo intelletto l’unico protagonista del processo conoscitivo, mentre le cose sono passive destinatarie della sua attività razionale. Ma se è così – come vuole l’impostazione razionalista della conoscenza – tutta la realtà è una macchina della quale l’uomo può usufruire come vuole. Anche la terra diventa un puro oggetto e si producono in questo modo quegli abusi che solo un’ecologia vera può correggere. Anche l’uomo diventa macchina nelle mani dell’uomo e nelle mani delle macchine.

Riassumendo potremmo dire che secondo la visione classica l’uomo può conoscere la realtà, una realtà che rimane però ultimamente indisponibile al suo pieno potere. Il creato reca in sé innumerevoli tracce di un ordine, e non di un caos inintelligibile: la verità è reale e può essere colta. Nella relazione fra le cose e il nostro intelletto si attua un rapporto di continuo, reciproco incontro. È come se la nostra capacità cognitiva e la realtà si armonizzassero progressivamente, assimilandosi l’una all’altra in un processo che non può mai dirsi compiuto una volta per tutte. In questo consiste la natura della verità e, contemporaneamente, la radice della sua inesauribilità. Siamo cooperatori del progetto di Dio anche e proprio in virtù della conoscenza, della ragione, della libertà che Egli stesso ci ha donato in quanto uomini.

A partire da questa prospettiva è forse più comprensibile l’assunto classico e medioevale per cui la conoscenza genera felicità. Un rapporto integro con la realtà creata ci consente di riconoscere in essa una struttura e una finalità intrinseca che orientano e ordinano la realtà esterna e la nostra realtà interiore, fisica e morale. Nel riconoscere la verità e nell’aderire ad essa troviamo quindi un aspetto fondamentale della nostra realizzazione. La realtà è fatta per esprimere l’ordine che porta in sé e manifestarlo alla nostra capacità di vederlo. L’avventura del conoscere, del pensare e del parlare è risposta all’appello che le cose create continuamente ci rivolgono. La nostra ragione è debole, offuscata e incerta, ma non completamente impotente.

***

Il rapporto che instauriamo con la realtà nell’atto del conoscere è anche espressione e comunicazione nella parola e nella lingua. Nella storia tante civiltà, non solo quella classica e cristiana, hanno riconosciuto un ordine nel reale e lo hanno espresso nelle loro lingue, rendendolo oggetto di una conoscenza condivisa. Su questa base – anche linguistica – si sono costruiti i valori e l’identità di interi popoli, un’eredità capace di offrire una direzione alle persone, inserendole in una storia. Da qui un’ultima considerazione. La verità non è mai un territorio che possiamo considerare definitivamente conquistato. Il processo di “adeguazione” alla realtà (sia nella vita del singolo, che in quella delle società storicamente date) ci colloca in un cammino16.

Anche noi – proprio come i filosofi dell’antichità – siamo in cerca di risposte: guardiamo alle cose, agli eventi, e ci domandiamo quale sia la verità. Con le nostre ricerche ci sforziamo di capirla, anche attraverso il linguaggio. Questo dinamismo si fa particolarmente acuto nei momenti di crisi e di emergenza, come è quello che stiamo attraversando. Tuttavia, il cammino verso la verità è un cammino della libertà. Può essere rifiutato dall’uomo o può essere usato come mezzo di mistificazione, come ci ha mostrato l’esempio dei sofisti. Il sapere, può diventare strumento di violenza e di oppressione, persino di morte. Questo accade ogni volta che rifiutiamo di riconoscere e obbedire a quell’ordine nel quale noi stessi esistiamo. Se la realtà non è portatrice di alcun senso, resta solo la nostra volontà di potenza nelle sue molteplici varianti.

Sempre di più in questi ultimi anni si sente parlare in modo negativo di fake news. Questo è segno del desiderio di attingere alla verità delle cose stesse e di sfuggire alla manipolazione mediatica, ma è segno anche della nostra fragilità di fronte alla potenza dei nuovi media. Tale potenza, infatti, mette in luce la radicale alternativa filosofica della quale abbiamo detto: la comunicazione è espressione di una relazione con la realtà ed è la possibilità di entrare nel mistero delle cose o è invece pura costruzione arbitraria al servizio di un potere?17.

L’uomo concreto, chiunque egli sia (ragazzo, adolescente, giovane, coppia o famiglia, persino l’anziano), vive per lo più in una realtà mediata, quella a cui ci dà accesso internet. Passiamo sempre più tempo a comunicare via mail in ambito lavorativo, a usare la messaggistica istantanea nelle relazioni, ad accedere ai media per informarci sul mondo o a scopo ricreativo. Le nostre “competenze” cognitive si stanno convertendo al mondo virtuale. Nell’era “pre-internet” l’acquisto di un libro implicava il muoversi fisicamente (andare in libreria), il fare un’esperienza che non coinvolgeva solo la vista, ma anche gli altri sensi (girare fra gli scaffali, prendere in mano un libro odorando il profumo della carta e sfogliarlo), l’avere scambi con altre persone (interloquire con il personale e con gli altri clienti del negozio). Oggi invece per molti di noi anche questa è diventata un’esperienza statica e principalmente visiva: aprire un computer, uno smartphone o un tablet; cercare un autore o un testo nel sito di un rivenditore online; visionare un elenco predisposto da un algoritmo non trasparente; inserire in un carrello virtuale il nostro acquisto e procedere infine al pagamento automatico. Tutto più essenziale di prima: ma anche automatizzato e pilotato; digitalizzato, e dunque registrato. Nel primo caso l’esperienza dell’acquisto di un libro coinvolgeva una pluralità di sensi e relazioni che sono scomparse nel secondo. La nostra esperienza del reale si è ridotta a vantaggio dell’esperienza del virtuale.

Si aprono qui numerosi punti di riflessione: oggi non attingiamo la verità dalle cose stesse, ma da strutture già mediate che filtrano la realtà, ponendone in luce determinati aspetti ed oscurandone totalmente altri. Certamente, lo facciamo perché troviamo in questa mediazione una grande convenienza; essa può produrre effetti di miglioramento della vita umana (si pensi alla chirurgia a distanza o alle applicazioni per persone disabili) insperati fino a pochi anni fa. Ma è chiaro che con la comunicazione è cambiata anche la forma della nostra conoscenza. La realtà – rielaborata e reinterpretata – viene tradotta in pacchetti di dati e ci viene offerta come un mondo a sé, preconfezionato. Quali sono i fini di tutto ciò? Commerciali? Consumistici? Di omologazione? Di controllo finanziario? Di manipolazione politica?

Non possiamo escludere totalmente il rischio che la nostra esperienza conoscitiva, comunicativa e linguistica vada man mano riducendosi nella sua complessità, che la conoscenza sia convertita in mera informazione, e che dall’esperienza viva del pensiero – strettamente connessa a quella dei sensi – si passi a una semplice gestione delle informazioni. Al tempo stesso questi strumenti, correttamente utilizzati, possono anche sostenerci nell’avventura del sapere. In altre parole, il mezzo digitale, che non è mai neutrale, fa sempre appello alla nostra responsabilità.

II

LA PAROLA NELLA RIVELAZIONE CRISTIANA

La questione del linguaggio nel suo rapporto con le cose, con la natura e l’universo è al centro della rivelazione giudaico-cristiana. Prima della creazione del mondo, nella quale appare la Parola creatrice di Dio, secondo la rivelazione cristiana Dio non è un essere isolato, ma è un Padre che dona tutto il suo essere al Figlio, la sua Parola eterna e sussistente. Il Padre ha la vita in se stesso e ha dato al Figlio di avere la vita in se stesso (cfr. Gv 5,26). Questo Figlio è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua Parola (cfr. Eb 1,3). Chi ha visto me ha visto il Padre (Gv 14,9), dice Gesù.

Per arrivare a questo vertice, magnificamente espresso nel Prologo del Vangelo di Giovanni, dobbiamo prima soffermarci sul valore della Parola di Dio così come essa appare nel libro della Genesi.

Dio parla nella creazione

Il primo capitolo della Genesi ci rivela che Dio non è obbligato a creare il mondo, ma decide liberamente di farlo. Prima che la sua Parola venga pronunciata per la prima volta, nulla esiste tranne Dio stesso. È la sua Parola che fa immediatamente accadere quanto egli dice. Nella lingua ebraica, nonostante in Genesi 1 si utilizzi sempre e solo la radice ’mr, esiste un’altra importante radice (dbr) che identifica l’atto del parlare, ma anche l’enunciato stesso, il messaggio, un ordine, un’informazione. Questa radice significa anche atto, gesto, compito, normativa, avvenimento. Per noi è interessante notare come parola e fatto siano intrinsecamente e originariamente inscindibili nella mentalità ebraica.

Nel primo versetto del libro della Genesi si dice in modo generico che Dio creò il cielo e la terra. Tutta la realtà dipende dalla sua volontà e dalla sua libera iniziativa, nulla sussiste in sé. Con il terzo versetto inizia il racconto analitico dei sei giorni della creazione. Ciascun giorno è introdotto dall’espressione: E Dio disse… Notiamo subito che il verbo “dire”, riferito a Dio, è immediatamente connesso al verbo “fare” (e così fece…), al verbo “accadere” / “avvenire” (e così avvenne…). La Parola di Dio è creatrice nel momento stesso in cui viene proferita, per la potenza conferitale dal suo autore. Essa, inoltre, in relazione agli esseri viventi (animali e uomo) è anche parola di benedizione, di fecondità: Dio benedice gli esseri viventi ordinando loro di essere fecondi e di moltiplicarsi (cfr. Gen 1,22 e 1,28).

Al termine di ciascun giorno, Dio guarda alla sua opera e la riconosce come buona (cfr. Gen 1,4.10.12.18.21.25). L’uomo e la donna, poi, sono contemplati nel loro essere come cosa molto buona (cfr. Gen 1,31). Tutto ciò significa che, essendo la Parola di Dio per il bene, il suo progetto è buono e la realtà stessa esiste a partire da una positività originaria. Come osservava Robert Spaemann, colui che crede in Dio «crede in una fondamentale razionalità della realtà. Egli crede che il bene sia più fondamentale del male. Egli crede che ciò che è inferiore debba essere compreso a partire da ciò che è superiore e non viceversa. Egli crede che il non senso presupponga il senso e che il senso non sia una variante dell’assurdo»18. Questa razionalità è indicata nel primo capitolo della Genesi dall’atto del parlare di Dio: tra il creatore e ogni creatura c’è una parola sensata che, proveniente dal primo, fa sussistere la seconda.

Per l’autore sacro è possibile parlare di un pensiero di Dio e di una voce di Dio che pronuncia delle parole. La realtà non è modellata da un demiurgo che, come nel Timeo platonico, plasma una materia informe a partire da idee preesistenti. Non è nemmeno eterna, come nella filosofia aristotelica, poiché ha un inizio nel tempo. C’è un rapporto immediato tra Dio e le cose, dato dal suo pensiero e dalla sua parola.

L’opera di Dio è descritta anche in termini di “separazione”, un vero e proprio ordinare la realtà ponendo limiti, usando dei criteri, compiendo il progetto divino di armonia e bellezza. Solo nei sei giorni della creazione, in tutto il libro della Genesi, è utilizzata la radice ebraica bdl (Gen 1,4.6.7.14.18), che significa appunto separare. Questo termine ricorre appena 41 volte in tutta la Bibbia ebraica ed è molto presente nel libro del Levitico, che è un testo “liturgico”. Possiamo quindi affermare che la creazione è, in un certo senso, anche una liturgia, esprime il suo massimo significato nell’essere luogo di lode e glorificazione del suo creatore.

Dio parla con l’uomo

Genesi 1,26 è un versetto centrale per tutta la storia dell’ebraismo e del cristianesimo. Qui Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza. Questi due termini – immagine e somiglianza – sono stati interpretati in moltissimi modi. A noi interessa soprattutto riprendere la tesi classica, secondo la quale immagine e somiglianza dell’uomo con il suo Creatore sono ravvisabili nel suo essere dotato di intelletto e volontà. Secondo san Tommaso d’Aquino, l’essere persona (che è il tratto comune tra Dio e l’uomo) è definito proprio da queste due caratteristiche: capacità di conoscere la realtà nella sua verità e libertà nell’agire19. Questa è la grande differenza tra l’uomo e gli animali. Questi ultimi non sono liberi né sono in grado di astrarre idee universali dalla realtà particolare. Il fatto che Dio parli proprio all’uomo presuppone in lui la capacità di intendere e soprattutto di comprendere.

Nel medesimo versetto, Dio dà all’uomo il mandato di dominare gli animali. Gli conferisce così parte del suo “potere”, della sua signoria sulla realtà. Subito dopo Egli dice all’uomo di generare altri uomini, di riempire la terra e soggiogarla (cfr. Gen 1,28). Nel versetto seguente, poi, Dio interloquisce direttamente con l’uomo nel momento in cui gli consegna ogni erba che produce seme e ogni albero in cui è il frutto: questo sarà il vostro cibo (cfr. Gen 1,29). La prima volta che Dio parla direttamente all’uomo lo fa, quindi, per fargli un dono e per affidargli l’intera creazione, collaborando con la quale l’uomo può vivere bene. Questo dono non è statico, ma è una realtà vivente da rispettare, che produce il bene nella misura in cui viene guardata e trattata secondo la Parola con cui Dio l’ha creata.

Il brano della Genesi che stiamo considerando mette in evidenza un aspetto ulteriore. L’uomo, dal momento stesso in cui è creato, non è solo. Non soltanto perché è voluto e creato in un progetto di bene, ma anche perché Dio cerca con lui una relazione. Contrariamente a quanto sostenuto comunemente nell’antropologia delle religioni, secondo la quale il rapporto con Dio nasce innanzitutto come esigenza dell’uomo ed è frutto dell’iniziativa e dei tentativi umani, dal racconto biblico emerge un dato diverso: la relazione con l’uomo è voluta, cercata e iniziata da Dio stesso. Ciò accade fin dal momento della creazione.

Da sempre Dio parla all’uomo e cerca il rapporto con lui. Anche dopo il dramma del peccato originale, e quindi dell’allontanamento volontario dell’uomo da Dio, l’iniziativa del Creatore non si ferma, anzi diventa ancor più audace. È lui che chiama Abramo (cfr. Gen 12,1). Per la prima volta nella storia del rapporto tra Dio e l’uomo, Dio si fa avvertire da una sua creatura in modo incontrovertibile attraverso la sua parola che lo chiama. È sempre Dio che consegna a Mosè le dieci parole, ovvero i dieci comandamenti, che sono la strada sicura attraverso la quale gli uomini possono vivere l’alleanza con lui. I comandamenti restituiscono all’uomo il senso di ordine e di armonia intrinseco nella creazione, violato e reso opaco dal peccato originale.

La Parola di Dio risuona per tutto il tempo della storia di Israele, per mezzo di uomini. È sempre Dio, infatti, a guidare la storia del suo popolo incaricando alcune figure umane eccelse, i profeti, di portare al popolo la sua Parola. Il profeta è chiamato dalla Parola e diventa lui stesso parola. Si pensi a Geremia, per esempio, che è dominato interamente da questa Parola dalla quale è addirittura soggiogato e di cui condivide la sorte.

Attraverso queste figure, chiamate a farsi voce di Dio, l’uomo reimpara il rapporto con Dio, con gli altri uomini, con la realtà creata e con la parola stessa.

L’uomo dà il nome alle cose

Nel capitolo primo della Genesi si legge più volte che Dio, dopo aver creato le cose, diede loro un nome (per esempio: chiamò il firmamento cielo), nel secondo accade qualcosa di nuovo.

“Dare il nome” è un’attività che viene svolta da Dio stesso ed è, in certo modo, il culmine della creazione: una cosa non è creata fino in fondo finché non ha nome. Nella cultura ebraica, inoltre, il nome è l’essenza della cosa nominata: chi conosce e pronuncia un nome entra in rapporto diretto con l’interiorità più intima della cosa stessa. Per questa ragione Dio non è nominabile con il suo nome proprio.

Nel secondo capitolo della Genesi troviamo un altro racconto della creazione, più antico del primo. Il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avrebbe chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. (Gen 2,19). L’uomo è chiamato a partecipare in modo analogico all’atto creatore di Dio. Egli vuole che l’essere umano collabori con lui nel dare nome alle cose e nel prendersi cura della realtà creata. La capacità di parola dell’uomo non è dunque arbitraria, ma è fondamentalmente relazione con le cose in Dio, cioè nella loro verità.

Chiamando l’uomo a dar nome alle cose, Dio non solamente consegna e affida la realtà all’uomo, ma lo chiama a “completarla” rendendolo partecipe della sua iniziativa. La parola umana assume, così, anche un aspetto di operatività e corresponsabilità.

L’episodio della Torre di Babele

Il tema del peccato originale narrato nel terzo capitolo della Genesi è lo sfondo del noto episodio della torre di Babele (cfr. Gen 11). Quanto accade a Babele è una delle conseguenze più rilevanti della disobbedienza originaria dell’uomo a Dio. Nota l’autore sacro che tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole (Gen 11,1). Ora, gli uomini, stabilitisi in una pianura, dialogando insieme decisero di costruire una torre la cui cima tocchi il cielo e di farsi un nome per non disperdersi su tutta la terra (Gen 11,4). La torre che tocca il cielo è un segno di tracotanza, un modo per raggiungere Dio e prenderne il posto, eliminandolo così definitivamente dai pensieri umani e dalla storia del mondo. Il nome che gli uomini propongono di darsi in seguito alla costruzione della torre è un nome solamente umano, che prescinda dalla loro creaturalità, dal loro essere immagine e somiglianza di Dio. È un tipo di nome nuovo, che potremmo definire “politico” e non teologico, un nome che non rispetta più l’ordine e la bellezza della creazione. Gli uomini utilizzano perciò contro Dio la parola e il linguaggio, cioè le fondamenta della loro possibilità di comunicare e raccogliersi in unità.

Il racconto prosegue così: Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro” (Gen 11,6-7). La “punizione” che Dio commina agli uomini è in realtà una correzione e una strada di salvezza. A causa della concupiscenza e dell’orgoglio nascosti nel suo cuore, l’uomo si era servito della parola e del linguaggio per allontanarsi dal suo Creatore. Dio cambia questa prospettiva insensata andando a toccare proprio la parola e, conseguentemente, l’interrelazione tra gli uomini e i loro progetti comuni (politici).

Conseguenza del peccato originale è la difficoltà nel capirsi, nel conoscere la verità con trasparenza e immediatezza, la disunione dell’umanità, seme di tutte le tensioni e le guerre. Viceversa, in questo episodio appare che il fondamento dell’unità è la Parola di Dio, che ha pensato e voluto la realtà nella sua armonia.

Prima della costruzione della torre, tutti gli uomini erano un popolo solo. Successivamente vengono dispersi da Dio in molti popoli che entrano presto in conflitto tra loro. Poco dopo, tuttavia, con la vocazione Abramo Dio inizia la storia di un popolo chiamato a radunare tutti i popoli (cfr. Is 60-66) di modo che non ci sia più Giudeo, né Greco, ma che tutti siano uno (cfr. Gal 3,28). Questo è il progetto originario di Dio, questo il suo sforzo continuo. Questa è la vocazione di Israele. Tutto ciò si compie in Cristo e nella Chiesa.

La Parola si fa carne

L’inizio del Vangelo di Giovanni riprende in maniera esplicita il primo capitolo della Genesi: entrambi i testi cominciano con l’espressione In principio. Tuttavia, alla luce dell’evento-Cristo l’evangelista Giovanni può entrare più in profondità nei contenuti della rivelazione. Prima che Dio cominciasse a creare, il Verbo di Dio era presso Dio (cfr. Gv 1,1) pur essendo distinto da lui. Se il Libro della Genesi guardava al principio del tempo e della storia, il Vangelo di Giovanni guarda al principio che sta prima dell’inizio del tempo e della storia, a ciò che è da sempre e per sempre. Chi è il Verbo di Dio? San Girolamo ha tradotto con verbum il termine greco lógos. Nelle lingue moderne ci sono stati molti tentativi di traduzione di questa parola greca, ma tutti sono necessariamente approssimativi. Come ho già accennato, il termine Lógos – che in molte traduzioni è reso con “Parola” e che la versione ufficiale della Bibbia della CEI rende con “Verbo” – è centrale nella riflessione filosofica dell’antica Grecia, soprattutto nel platonismo e nello stoicismo. L’evangelista Giovanni usa questo termine greco per significare la preesistenza del Figlio, persona distinta dal Padre, ma della medesima sostanza. Egli, come ha scritto san Paolo, è colui per mezzo del quale e in vista del quale tutte le cose sono state create (cfr. Col 1,16). Anche Giovanni scrive: Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste (Gv 1,3). Il Figlio preesistente, identificato con il Lógos, è perciò il senso e la sostanza di ogni cosa, la ragione di ogni essere, il fine verso cui tutto tende. Ogni realtà creata, e quindi la totalità della realtà, è pensata con criterio e con ordine da Dio nel Lógos. «Lógos – ha detto Benedetto XVI – significa insieme ragione e parola, una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi»20.

L’evangelista cerca di aiutarci a comprendere la realtà del Lógos attraverso due immagini: in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini (Gv 1,4). Il Lógos, perciò, non è solamente una forma ideale, né tantomeno uno strumento della creazione, ma è quella forza che fa vivere le cose e le persone. Senza questo principio, non solo la realtà non avrebbe senso, ma neppure esisterebbe. L’immagine della luce si può comprendere solamente a partire dal tema delle tenebre: la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta (Gv 1,5). Con il termine “tenebre” l’evangelista, oltre che alludere al velarsi della gloria del Verbo incarnato, intende, nel solco della tradizione biblica, tutto ciò che si oppone a Dio: il peccato e i nemici di Dio, celesti e umani. Poiché sono lontananza da Dio, essi sono lontananza dal Lógos: sono cioè illogici, insensati. La presenza del Lógos in un contesto di peccato e di opposizione a Dio è identica al fenomeno dell’accensione della luce in una stanza buia.

Ma il Vangelo di Giovanni non si limita a rileggere alcuni passi di Genesi 1 introducendo la nozione di Lógos preesistente: l’evangelista, infatti, annuncia che il Verbo si fece carne e cominciò ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14) 21. Verbo e carne sono due parole in antitesi tra loro: il Verbo è una realtà spirituale ed eterna; la carne è una realtà terrena, effimera, caduca e fragile, sia intrinsecamente sia a causa delle colpe degli uomini. Giovanni annuncia che questi due estremi sono diventati una sola cosa nella persona di Gesù Cristo. La purezza di Dio e la debolezza dell’uomo sono unite nella divino-umanità del Figlio. Egli si offre a tutti non semplicemente come un insegnamento a cui guardare o come una legge da rispettare, ma come una presenza che si lascia incontrare. Il pensiero di Dio, che è il suo Lógos, a lui uguale e da lui distinto, è diventato un uomo: ciò significa che la verità, la vita vera e la luce esistono, non sono un prodotto della capacità umana, ma un dono offerto da Dio attraverso l’umanità del Lógos incarnato. «La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è mostrato… presenza della Ragione eterna nella nostra carne… Certamente occorre sempre l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde all’umiltà di Dio»22.

Dio è comunicazione da sempre: nell’eterno il Padre genera il Figlio, vive con lui un dialogo d’amore e riceve da lui, nello Spirito, la lode e la gloria. Ma l’evento in assoluto più comunicativo di Dio è l’incarnazione del Figlio (cfr. Eb 1,1-3). Il Vangelo di Giovanni svilupperà questa intuizione fino alla fine, per altri 21 capitoli. Attraverso il racconto delle opere e delle parole di Gesù, e soprattutto descrivendo la sua Passione, Giovanni ci aiuta a comprendere che il Lógos è la carità. Tocchiamo così uno dei vertici e dei punti più sintetici del pensiero cristiano: la verità è carità, Dio stesso è carità.

«Cristo – afferma Giovanni Paolo II – è il centro del cosmo e della storia»23. L’evento Cristo, infatti, non è limitato ai pochi anni della vita terrena del Verbo di Dio incarnato. Questo evento, pur accaduto nel tempo, ha un valore eterno e irrora pienamente tutta la storia degli uomini, sia quella a lui precedente che quella successiva.

Il Verbo di Dio fatto carne è contemporaneo alla storia della Chiesa in modo mediato dalla fede dei suoi discepoli, dalla Chiesa – suo mistico corpo – e, soprattutto, dai quei segni efficaci della grazia che sono i sacramenti. Insieme a tutto ciò, merita una menzione speciale la Parola di Dio contenuta sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Essa non è sacramento. Allo stesso tempo, in modo normativo e pieno, ci consegna tutto ciò che è necessario conoscere su Dio, Cristo e l’uomo. Essa viene solennemente proclamata nel contesto delle assemblee liturgiche, nell’ambito della Liturgia della Parola. Letta nella Chiesa e dalla Chiesa, essa ci conduce a Cristo24.

Come ogni parola scritta, anche la parola biblica necessita di essere interpretata e vissuta. Tuttavia, non ogni metodo è adeguato. A motivo della sua genesi, del contesto e dello scopo per cui è stata scritta da autori umani guidati dall’ispirazione dello Spirito Santo, essa non può essere interpretata e attualizzata se non nella Chiesa e per la Chiesa, sotto la guida del Magistero e della Tradizione. Leggendola in questo modo, i credenti scoprono in essa un oceano senza limiti, una profondità di ricchezza inspiegabile se non a partire dall’ipotesi della rivelazione. La Parola di Dio è uno strumento attraverso il quale Dio stesso comunica con l’uomo, un canale che gli uomini devono utilizzare per annunciare la fede a coloro che non la conoscono.

Il Lógos preesistente, principio e fine della creazione, è presente nella parola scritta ispirata. «Le parole di Dio espresse con lingue umane – afferma la Dei Verbum – si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo»25. Se i medievali sostenevano che chiunque dice la verità la dice sempre per un dono dello Spirito Santo, analogamente possiamo dire che chiunque faccia un’esperienza reale di rapporto con la parola, attraverso la scrittura o la lettura, nell’atto stesso di scrivere o di leggere fa esperienza della vicinanza del Verbo di Dio fatto uomo. «Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Lógos stesso, che estende il suo mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una storia umana»26. Allo stesso tempo, l’immagine e la somiglianza dell’uomo a Dio possono essere scoperte proprio a partire da questa capacità dialogica – dalla quale nessun uomo è escluso – che si esprime in modo sommo nella scrittura e nella lettura.

III

EDUCARE LA PAROLA NEL TEMPO DEL WEB

Tutta la sapienza biblica a cui abbiamo accennato nella sezione precedente, prima di sedimentarsi in diverse tradizioni scritte, confluite poi in un’opera di redazione, nasce come trasmissione orale.

Le forme della parola

Proveniamo da millenni nei quali l’alimento dei rapporti umani è stato offerto dalla comunicazione orale. La parola detta vocalmente è la prima traduzione del nostro pensiero, nei suoi aspetti intellettuali ma anche emotivi ed emozionali. La parola pronunciata è ricca di sfumature: può raccontare e ragionare, ma anche piangere, gioire, gridare. Nell’oralità ogni termine è intrecciato a un’inflessione, a un tono, essenziali al fine della sua piena comprensione. Qui la parola si rivela apparentata alla musica e all’armonia, che nella cultura greca e medioevale costituiscono la stoffa di cui è fatto l’universo e il primo riflesso di Dio. Non è casuale che all’origine della cultura occidentale e alla base delle prime forme letterarie ci siano gli aedi e i cantori. Intere civiltà hanno consegnato i propri fallimenti e dolori, attese e scoperte alla parola detta e narrata.

Il valore dell’oralità, comunque, non risiede semplicemente nel suo aspetto storico o antiquario. I suoi caratteri illuminano in modo eminente la dimensione comunicativa e relazionale da cui la parola in quanto tale è definita. Non possiamo dire o raccontare nulla se non alla presenza di un altro. La forma orale del linguaggio ci richiama dunque a una sostanziale e più generale verità. Ogni parola – anche quella che resta nella dimensione del nostro pensiero, senza mai manifestarsi esternamente – è sempre “in presenza di qualcuno”, è sempre detta o scritta per qualcuno: anche quando è formulata nel segreto. La semplice “presenza ideale” dell’altro suscita in noi la parola.

La scrittura sorge dal desiderio che quanto veicolato dalla comunicazione orale possa avere durata ed “eternarsi”, nel tentativo di offrire un fondamento obiettivo alla trasmissione tra popoli e generazioni. La sua comparsa segna un punto di non ritorno nella storia umana: cambia il modo in cui l’uomo concepisce se stesso, il proprio pensiero e la realtà. Lo scrivere, pur restando per lunghissime epoche appannaggio di pochi, consente di separare la parola dal suo autore, il discorso da chi lo pronuncia; e lo mette idealmente a disposizione di chiunque voglia accostarvisi, anche di chi non è in grado di comprenderlo27. La scrittura non è totalmente sostitutiva dell’oralità: l’una ha bisogno dell’altra. Spesso, per essere compresa, la pagina scritta necessita della mediazione di un maestro, di una persona concreta, di una voce che parla28.

Dal 2007 a oggi il “web partecipativo” ci ha allontanati dalla comunicazione orale, “faccia a faccia”, così come dalla pagina scritta. Nei fatti, ha mutato profondamente la natura della parola stessa. Quest’ultima è apparentemente protagonista in blog, forum, chat e social network, divenuti oramai luoghi primari del confronto e della comunicazione interpersonale. Ciò nonostante, in tali contesti la parola scritta è spesso oggetto di fraintendimenti, polarizzazioni, travisamenti, quasi non si parlasse nemmeno la stessa lingua. Ciò si spiega col mutamento di cui dicevo: la parola nella comunicazione social spesso è parola-emoticon, frammentaria, destrutturata, sganciata da una sintassi e dai rapporti che la uniscono strutturalmente al “tutto” di un discorso. Certo, questa comunicazione può essere in grado di esprimere lo stato d’animo immediato e di seguire il flusso del pensiero, “empatizzando” ogni contenuto, ma rimane comunque fortemente inadeguata per espressioni più compiute e profonde.

Un’altra conseguenza della diffusione capillare della multimedialità e della comunicazione tramite social è che tutti – almeno potenzialmente – siamo “autori” e ciò accade in un rapporto di proporzionalità inversa rispetto al nostro essere lettori. La lettura costituisce, tuttavia, il necessario compimento della scrittura, il suo inveramento, come ne è la fonte. Nella lettura si fa più evidente il nesso che lega l’oralità e la scrittura. La parola scritta e mai decodificata, mai pronunciata, è monca; viceversa, la parola pronunciata si dischiude in tutta la sua potenzialità espressiva. In tale contesto assume particolare importanza la lettura vocale: essa ci ricorda che la parola è destinata a risuonare. Ed è forse sulla base di questa intuizione che grandi scrittori come Pirandello, o come Tolkien e Lewis, erano soliti leggere agli amici più cari i testi che andavano componendo. La nostra civiltà sta smarrendo la pratica della lettura vocale, soprattutto in famiglia, come racconta lo scrittore Daniel Pennac nel suo saggio Come un romanzo29. Questo smarrimento comporta un impoverimento della nostra esperienza nel suo complesso. L’affermarsi della lettura mentale come forma quasi esclusiva di lettura, strettamente connesso all’avvento della stampa a caratteri mobili, ha imposto l’egemonia della vista a scapito degli altri sensi30. Viceversa, il leggere ad alta voce – così come l’ascoltare qualcuno che legge – implica un rapporto più ricco e denso con la parola scritta, recitata, detta e udita e attiva più canali sensoriali contemporaneamente. Questa particolare forma della parola letta e detta ci ricorda che la lettura (anche quella che facciamo da soli) è sempre un’esperienza. Come ogni altro nostro vissuto ci riguarda da vicino, ci interpella a un livello esistenziale.

Parola, educazione, scuola

Tra le diverse forme della parola esiste una relazione di reciprocità. L’incapacità di leggere e scrivere, come constatiamo quotidianamente, inaridisce anche la nostra comunicazione orale rendendola più difficoltosa. Analogamente, il disabituarci al parlare ci disabitua al pensare argomentativo. Tutto ciò si riverbera nella nostra capacità di conoscenza, di ideazione e di scrittura. La nostra epoca – ricca di immagini e di slogan, ma povera di parole meditate – è pervasa dall’urgenza di un’educazione alla parola: un insegnamento della lettura, della scrittura, del parlare. La crisi della parola è, al suo fondo, crisi dell’educazione. Non avere parole, o non averne padronanza, significa essere privati di una fondamentale chiave di lettura della realtà, significa perdere possibilità di pensiero, di conoscenza e di relazione, significa essere meno liberi.

Alla luce di tutto questo, come dobbiamo leggere la presenza dei media digitali nella vita di tutti i giorni? In particolare, come interpretare l’imporsi – sia pure in modalità emergenziale – di forme di didattica a distanza e multimediale nella scuola?

La scuola è il luogo in cui il giovane, attraverso diverse discipline e la mediazione di un maestro, viene introdotto a quel patrimonio di cultura che lo costituisce e che egli, nello stesso tempo, è chiamato a ricreare. Il sapere che la scuola veicola, dunque, non è semplicemente un insieme di informazioni di immediata utilità pratica, ma una realtà “viva”, capace di interagire con noi e di “umanizzarci”. È questo anche il significato profondo dell’insegnamento della parola (detta, letta, scritta) nella scuola, fin dalle primissime basi, tanto essenziali e semplici nella loro espressione quanto complesse nella loro costruzione. Pensiamo all’impegno di una maestra elementare che insegna le lettere dell’alfabeto ai suoi alunni, che li guida alla scrittura delle prime parole, alla lettura di frasi sempre più lunghe, che insegna pian piano a costruire pensieri e a fissarli nella scrittura. A partire da queste fondamenta, costruite con un lavoro paziente e costante in interazione con l’adulto, il bambino si affaccerà all’universo della cultura. Crescendo imparerà a muoversi in esso e a prendervi parte attiva. Qualunque strada egli sceglierà di percorrere nella vita, lo farà sempre appoggiandosi su queste basi: la lettura e la scrittura così come le capacità di pensiero e di ragionamento che su di esse si costruiscono.

Questo processo esige un altro prerequisito essenziale. Come ho già scritto in altre occasioni, l’insegnare e l’imparare presuppongono un coinvolgimento di tutta la persona. I nostri giovani, i nostri studenti hanno bisogno di scoprire in che modo ogni singolo argomento li interpella, quale domanda consegna loro, quali ipotesi di significato dischiude, quali sono le connessioni che uniscono ogni singola disciplina o “porzione di sapere” alle altre. Accedere alla lettura e alla scrittura significa avere accesso, direttamente o indirettamente, all’intero patrimonio culturale dell’umanità, riconoscerci inseriti in una storia che ci precede, che sostiene la nostra vita e ci fornisce categorie, giudizi e parole per esprimerli. Ci consente di esplorare con frutto il tempo, giudicarlo e rinnovarlo dal suo interno.

L’insegnare a leggere e scrivere passa attraverso la concretezza dello strumento lessicale e grammaticale, ma non è mai slegato dal coinvolgimento della persona del docente. Ricordo ancora oggi quali figure, nella vita e nella scuola, sono state capaci di accendere la mia passione per la lettura e la scrittura al fuoco della loro: in particolare Maggiorina Castoldi, la mia maestra elementare. Ciascuno di noi, probabilmente, ha un insegnante (o un adulto) al quale deve almeno la scintilla iniziale, l’intuizione, lo sprigionarsi dell’interesse. Possiamo suscitare nell’altro solo le domande che abitano in noi, le passioni che ci attraversano, il desiderio di bellezza e di vita che ci anima, in un rapporto personale31.

È alla luce della natura della scuola e dell’insegnamento (prima ancora che della funzione ad essi riconosciuta) che sorge il mio interrogativo circa la didattica a distanza. Negli ultimi tempi c’è chi ha salutato il trasferimento della vita d’aula nella sfera multimediale come un positivo punto di non ritorno, auspicando la riconferma di approcci all’insegnamento/apprendimento sempre più mediati dallo strumento informatico, anche una volta cessata la situazione di emergenza dettata dalla pandemia. Altre voci hanno percepito soprattutto le criticità e le inadeguatezze dello strumento. Talvolta il dibattito, con la complicità degli stessi media e dei meccanismi della comunicazione sui social, si è polarizzato secondo la logica delle opposte tifoserie.

Una cosa è certa. Con l’introduzione massiccia delle nuove tecnologie nei processi di insegnamento e apprendimento, o con il trasferimento di questi ultimi in ambienti virtuali, non ci troviamo di fronte semplicemente a un mutamento di strumenti. Questi ultimi incidono sul modo in cui pensiamo, ragioniamo, ci accostiamo alla realtà e a noi stessi. Per questo non possiamo sottrarci a uno sforzo di comprensione di quanto sta accadendo nella scuola e a una riflessione sugli scenari che gli eventi recenti hanno aperto per il futuro. È in gioco la natura stessa dell’insegnamento.

La didattica a distanza tra sfide e opportunità

Senza alcuna pretesa di tracciare qui bilanci che non mi competono, vorrei offrire una riflessione sugli strumenti multimediali di insegnamento e apprendimento, sulle criticità che presentano e sui punti di lavoro che aprono.

Un primo elemento di riflessione segue da quanto detto in precedenza. Che cosa cambia nella conoscenza quando essa è mediata da strumenti, da rappresentazioni e non è più diretta da persona a persona condividendo uno stesso spazio fisico? La pedagogia contemporanea ha da molto tempo individuato una molteplicità di funzioni dell’intelligenza32. Esse vengono sacrificate dagli attuali strumenti della didattica on line in favore di un approccio intellettualista che rischia di diminuire, e non solo cambiare, il nostro rapporto con la realtà.

Un secondo elemento ha a che fare con la ridefinizione di tempi e spazi. Nella didattica a distanza (ma anche nello smartworking) si è assottigliato il confine tra la scuola e la casa, tra la vita pubblica e la vita privata, tra il tempo del proprio compito e il tempo libero. Di fatto lo strumento informatico può alimentare l’illusione che, trovandoci sempre collegati, possiamo (e dobbiamo) rispondere immediatamente a qualsiasi input, in qualunque momento. Tutto ciò ha generato, soprattutto tra gli insegnanti, molti interrogativi.

Ancor più complessa è la questione della relazione educativa e didattica. In un mondo nel quale le relazioni interpersonali passano già in larga misura attraverso i social, è possibile pensare di fare a meno del rapporto diretto tra docente e discente o di eroderne progressivamente i tempi a vantaggio di ulteriori relazioni mediate da uno schermo? La forma a distanza riduce l’aspetto multisensoriale della relazione tra persone e, con esso, tutti i fattori di sfondo della comunicazione faccia a faccia, che fanno parte integrante del processo di trasmissione di contenuti e comprensione. Si smarrisce anche la possibilità di approfittare del portato educativo di situazioni “spontanee”, tipiche della vita di scuola, che consentono al docente di entrare più a fondo nella vita dei propri studenti: dalla chiacchierata in corridoio a una semplice battuta, da una richiesta di chiarimento a fine lezione alla possibilità di prendere da parte un ragazzo per affrontare con lui determinate questioni. La relazione in presenza consente di “sorprendere” la vita nel suo darsi e, con essa, le occasioni che offre. Gli strumenti informatici, per quanto versatili essi siano, non consentono di replicare tale dinamismo a distanza. Soprattutto rischiano di ridurre l’esperienza educativa trasformando l’insegnamento a comunicazione di informazioni.

***

La comunicazione a distanza può certamente essere utile tra adulti e in chiave funzionale: negli uffici, nelle dinamiche sempre più complesse, ampie e “globali” che investono oggi il mondo del lavoro e delle imprese. Può essere utilissima per approfondimenti specialistici o una diffusione della conoscenza in situazioni estreme, come accade nella chirurgia a distanza. Può aprire nuove frontiere di conoscenza per persone con certi tipi di disabilità. Può soprattutto avvicinare le persone in casi di solitudine. Tuttavia, penso che nell’iter educativo la didattica a distanza debba invece essere vissuta con molta gradualità e prudenza. Per poter gestire le tecnologie con frutto, abbiamo bisogno di una consapevolezza educativa. L’educazione esige la presenza di un adulto educatore, di una persona animata da un’ipotesi di significato nel suo sguardo sul mondo e sulla vita.

Se il periodo del confinamento sociale, attraversato da numerose polemiche sulla scuola e sull’efficacia del sistema formativo, non ha visto la fine della scuola, è grazie agli insegnanti in carne ed ossa, che non hanno rinunciato ad educare. Le criticità del momento presente non hanno costituito un’obiezione definitiva alla possibilità di insegnare a leggere, scrivere, parlare e pensare, ogni volta che un adulto si è adoperato a introdurre i propri studenti in un orizzonte di senso. Solo in questa prospettiva – e cioè solo nel seno di una relazione con un maestro – la didattica digitale può diventare una risorsa, senza fagocitare la vita e la mente dei nostri giovani.

Non dobbiamo temere le tecnologie, né farne un idolo. Dobbiamo piuttosto riconoscere che il loro utilizzo si pone al servizio dell’uomo quando non è disgiunto da una relazione educativa, dall’educazione alla lettura e alla scrittura, alla parola come fonte ed espressione primaria del pensiero che ci collega con l’universo e con gli orizzonti più alti dell’esistenza.

Educare alla parola

Torniamo perciò al valore della parola, dal quale questo discorso ha preso avvio.

Padroneggiare la parola non significa solamente potersela cavare nel mondo. Nella misura in cui maturiamo un rapporto con essa, si strutturano il nostro mondo interiore ed esteriore, il modo di pensare, il rapporto con la realtà. Per questo il nostro mondo, così altamente tecnologizzato e così povero di verità e di senso, ha bisogno che alla parola sia restituito il suo peso specifico.

Non è possibile educare alla lettura, alla scrittura, alla parola come si forma una specifica abilità, a meno di non cadere nella retorica fine a se stessa. In quanto adulti spetta a noi introdurre i piccoli al linguaggio, al pensiero, al parlare. Lo facciamo con il nostro amore alla lettura e alla scrittura, con le storie e i racconti che hanno affascinato noi per primi. Il semplice gesto della madre che racconta una fiaba o legge un libro ai propri figli ha un potere immenso. La parola, infatti, è feconda: unisce per noi il passato al presente e il presente al futuro. Come già detto, ci colloca in una storia e genera una tradizione. Si tratta di un dinamismo a spirale: il pensiero si traduce in parole pronunciate e scritte; queste sono a loro volta udite e lette, origine a loro volta di altri pensieri e parole.

Per imparare a scrivere dobbiamo tornare a leggere. La comunicazione, e in particolare la scrittura, presuppone un bagaglio di esperienze, di informazioni, di immagini. Esige la fatica della rielaborazione e dell’espressione in forme nuove. Italo Calvino coglieva questa dimensione della scrittura in una densa formulazione: «È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione»33.

La presenza preponderante dei social media e del web non contraddice questa essenza della scrittura: ci costringe piuttosto a prendere coscienza della pluralità di destinazioni oggi possibili per uno scritto, per utilizzarli senza esserne schiacciati. Il mondo del web richiede tempi di rielaborazione e stesura estremamente rapidi, con una frequenza pressoché quotidiana. Esige sintesi e immensa semplificazione. Se assolutizzata, questa modalità rischia di ritorcersi contro la natura stessa della parola.

Per recuperare il gusto della parola è anche necessario ritrovare un corretto rapporto con il silenzio. Ogni parola, per essere ricca e profonda, ha bisogno di un tempo di gestazione: un tacere, al quale forse non siamo più abituati. Mi ha colpito come, nel venir meno subitaneo e totale di tanti impegni quotidiani a causa dell’isolamento sociale, la tentazione iniziale sia stata quella di riempire il silenzio con slogan, immagini, notizie. In realtà il protrarsi di quella condizione ci ha costretti a interrogarci sul significato (e persino sul valore) di un tempo così forzatamente e apparentemente improduttivo. Non è casuale che il termine con cui nominiamo il luogo istituzionalizzato della trasmissione culturale – la scuola – sia ricalcato sul greco scholè, il tempo libero dalle occupazioni materiali (l’otium dei latini, contrapposto al negotium). La parola che comunica nasce nel tempo lungo del pensiero, della parola detta fra sé e sé, della parola ascoltata o riascoltata dentro di sé.

Il silenzio non è il vuoto: è lo spazio dell’ascolto. Nell’apparente solitudine del silenzio scopriamo il posto dell’altro in noi. Ascoltare (anche nella forma della lettura) è infatti un modo per fare spazio dentro sé all’altro. Si tratta di una consapevolezza da recuperare: specialmente in un tempo, come il nostro, nel quale siamo continuamente sollecitati da comunicazioni multiple e simultanee. Non è infrequente vedere qualcuno che, mentre parla con l’interlocutore che ha fisicamente davanti a sé, comunica sui social con altre persone. Occorre una lunga educazione perché gli strumenti tecnologici di cui disponiamo non ci distolgano dall’ascolto attento, concentrato, non superficiale.

Essere buoni ascoltatori significa anche diventare ascoltatori critici: imparare cioè a selezionare le letture, le voci, gli ascolti, le fonti e le persone. Lo spazio del silenzio e dell’ascolto, lo spazio della lettura è il primo passo di ogni creazione, di ogni ideazione. Nessuno può reinventare il mondo da sé. Il ragionamento matura sempre nel paragone con l’esperienza di un altro. La parola ascoltata e letta contribuisce a renderci quello che siamo. Abbiamo bisogno di maestri ed amici – in carne ed ossa o attraverso la pagina scritta – per poter pensare, comunicare, scoprire la nostra identità.

CONCLUSIONE

Vi sono alcuni passaggi nella storia dell’uomo che costituiscono dei veri e propri balzi in avanti se ben vissuti e interiorizzati. Essi sono generalmente imprevisti, ma, nello stesso tempo, rappresentano la somma di un numero infinito di passi. Eppure sono anche qualcosa di infinitamente più grande della loro somma. Come uno scatto di cui l’uomo stesso, forse, non si rende conto al momento, ma la cui grandezza misurerà nei secoli.

Il primo di questi passaggi è certamente la nascita dell’autocoscienza, cioè del pensiero e, allo stesso tempo, della parola. Gli studi delle neuroscienze in questi ultimi decenni hanno intensificato il lavoro di indagine su questo gradino della storia. La nascita del pensiero e della parola è avvolta nel mistero. Oggi alcuni scienziati ritengono in chiave evoluzionistica che il pensiero sia sorto attraverso una sintesi chimica. Essi negano che esista nell’uomo “qualcosa” oltre il dato biologico. Affermano che la vita umana non è altro che una sintesi molecolare che scomparirà così come è apparsa. Questa lettura semplificata dell’essere umano crea in realtà più problemi di quanti pretende di risolverne. Il pensiero, infatti, non è un semplice gradino ulteriore di una scala che tutti i viventi potrebbero percorrere. Se l’uomo è giunto al pensiero semplicemente come passaggio successivo e avanzato a partire da reazioni e sentimenti, perché questo non sarebbe possibile ancor oggi agli altri animali? Che cosa ha fatto sì che un essere animale a un certo punto abbia cominciato a pensare?

Il pensiero vive una molteplicità di funzioni. Innanzitutto è coscienza di esistere, coscienza della propria singolarità rispetto alle altre di cui l’uomo è circondato. Esso, come dice Aristotele, parte dalla meraviglia del proprio esistere e dell’esistere degli altri. Per sua natura, il pensiero è una funzione riflessiva, capace di guardare al proprio io, agli altri, alle cose, prendendo le distanze da sé, immedesimandosi con ciò che è altro da sé, per poi tornare a se stesso arricchito da tutti quegli incontri. Attraverso il pensiero l’io scopre che è proprio la presenza degli altri a suscitare in lui la domanda su se stesso e sul mondo. Ma l’abilità del pensiero non si ferma qui. Nell’analisi dell’io scopre desideri e pulsioni, attrattive e rifiuti, vicinanze e lontananze. In altre parole, scopre a poco a poco la possibilità del giudizio, la possibilità di attribuire a se stesso e alle cose, per quanto in modo provvisorio, un giudizio di valore (bene-male), di corrispondenza (giusto-ingiusto), di attrattiva (bello-brutto), ecc.

Proprio per questa intrinseca relazionalità, dovuta alla presenza dell’altro e degli altri, la parola nasce insieme al pensiero. Forse sono stati gli animali con i loro versi o i rumori della vita quotidiana e della natura il suggerimento che ha determinato la nascita della comunicazione verbale. Forse la parola è nata come canto, a imitazione del canto degli uccelli, come poesia, come accompagnamento della musica. Forse la poesia precede la prosa come il canto precede il parlare e la musica il silenzio.

Il libro della Genesi definisce il dar nome alle cose come uno dei gesti originari che Dio suggerisce all’uomo (cfr. Gen 2,19). Dare nome, infatti, non significa soltanto far entrare una persona o una cosa nell’orizzonte della propria vita e, in un certo senso, del proprio possesso, ma anche riconoscere ad essa una dignità distinta dalla propria eppure in relazione con sé. Se l’uomo esistesse da solo non avrebbe bisogno della parola. Dio, che pure è l’unico, è relazione fin dall’origine e perciò generatore della Parola.

Da questo punto di vista, l’evento creativo di Dio, così com’è stato espresso nella tradizione giudaica e riletto nella tradizione cristiana, esprime l’archetipo di ogni evento creativo e di ogni comunicazione.

La stessa aura di mistero avvolge la nascita della scrittura. Dovremmo rivolgerci all’antropologia, alla glottologia, alla semiotica o alla filosofia del linguaggio per cercare le prime tracce di quel misterioso evento che è stato la trascrizione dei suoni. A un certo punto l’uomo ha sentito il bisogno di fissare sulla pietra, sulla cera, nella pittura, sulla pelle, attraverso dei segni, i suoni con cui dava nome alle cose e alle sue azioni. La storia del linguaggio è una delle storie più affascinanti che esistono perché ci parla della lenta costruzione del pensiero dell’uomo; degli schemi attraverso cui si è rapportato con la realtà, delle forme con cui, a poco a poco, ha espresso la propria comunicazione. Il rapporto tra pensiero, parola parlata e parola scritta è qualcosa di miracoloso, uno dei più grandi capolavori che l’uomo abbia potuto generare.

Come ho esposto nei 3 capitoli di questo discorso, la tradizione orale e quella scritta mantengono tra di loro un rapporto molto particolare. La prima ha dato origine alla seconda, ma essa non si è estinta. Esperienze nuove, contaminazioni rinnovate tra culture e popoli diversi, ricreando il linguaggio, alimentano come un nuovo sangue la parola scritta, la narrazione, il saggio, la poesia. Oggi stiamo tornando ad un prevalere del rapporto orale su quello scritto: prevalgono le immagini, le narrazioni brevi attraverso la decostruzione delle parole, i sentimenti espressi con emoticon. Se questo tipo di comunicazione rimane funzionale ad un rapporto di lavoro o emotivo, supportato però dalla capacità di tradurre poi nello scritto riflessioni e racconti più articolati, questi ultimi non ne soffriranno e con essi la possibilità di leggere con più profondità se stessi e le proprie esperienze.

Prima però di questa epoca dello “schermo”, dobbiamo accennare ad un altro passaggio che l’ha preceduta di mezzo millennio circa: la parola scritta è diventata parola stampata. Anche questo è stato un salto immenso. Prima della stampa lo scritto era necessariamente a disposizione di pochi. Non c’era bisogno di saper leggere e scrivere perché l’alto costo delle pergamene e dei codici rendeva inaccessibile ai più la cultura della scrittura e della lettura.

L’invenzione dei caratteri a stampa ha rivoluzionato completamente il rapporto dell’uomo con la parola. Essa diventava potenzialmente patrimonio di tutti. Costava poco avere libri tra le mani. Il loro numero aumentava esponenzialmente e, comunque, era più facile passarli ad un parente, ad un amico, moltiplicando in questo modo le strade di accesso al sapere. Fu una rivoluzione anche nel campo del potere politico: un numero fino ad allora impossibile a realizzarsi ebbe accesso a nuove conoscenze. Sulla ribalta della storia apparivano i primi passi di quella che sarebbe stata la nascita della democrazia moderna.

Veniamo ora all’ultimo gradino: dalla parola stampata allo schermo (o alla “parola computata”). La rivoluzione cibernetica, che subito dopo la II guerra mondiale prometteva cambiamenti radicali nel campo dell’industria e della ricerca, si è rivelata poi, con la nascita di internet e dei social, una rivoluzione di ben più vasta portata. Il punto centrale, a mio parere, è stato la nascita di internet, cioè la possibilità di connettere tra di loro, inizialmente attraverso le linee telefoniche, i vari dati dei computer di tutto il mondo. Un’offerta di conoscenze potenzialmente infinita che certamente ha creato nuove possibilità di accesso al sapere, soprattutto per studiosi, ricercatori, scienziati. Essa, nello stesso tempo, ha però generato – proprio per l’immenso numero di informazioni, notizie e immagini messe a disposizione – una relativizzazione del sapere, legata all’incontrollabilità delle fonti. Conosciamo tutti il fenomeno delle fake news.

Assistiamo perciò al duplice lato “politico” dell’era di internet: da una parte, un’élite relativamente ristretta di persone può aumentare in modo considerevole il proprio potere avendo a disposizione sempre nuove conoscenze e nuovi canali di ricerca; dall’altro, un infinito numero di abitanti della terra vive nell’illusione di un potere da raggiungere, mentre in realtà la sua vita è governata da centri invisibili e lontani attraverso algoritmi che determinano i risultati delle ricerche personali, attraverso la pubblicità, il mercato e un controllo sempre più vasto della vita privata.

In questo contesto emerge, ancor più potentemente che nei decenni e nei secoli passati, l’importanza della lettura e della scrittura e, in ultima analisi, del pensiero critico per ogni persona. Chi è veramente svantaggiato nel nostro tempo? Chi non rincorre tutte le novità dell’era tecnologica? No, soprattutto chi non sa leggere e scrivere. Chi non è stato aiutato a prendere consapevolezza e a godere dei tesori che la storia passata e presente del suo popolo potrebbe mettere nelle sue mani attraverso la lettura e la scrittura. Tesori di storia, di arte figurativa, di letteratura, di poesia, di musica, di ricerca scientifica. È chiaro che non possiamo scoprire tutto da soli. Molto lo riceviamo dagli altri. La lettura e la scrittura, quali strade privilegiate dello sviluppo del pensiero, ci danno la possibilità di vagliare l’autorevolezza delle autorità e di verificare la corrispondenza della loro proposta con ciò che la natura e la storia dell’uomo ci presentano come valori ed esigenze ineliminabili: la conoscenza di Dio, la conoscenza di se stessi, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, del vero e del falso. Senza una coscienza critica che non distrugga il passato, che riconosca il valore delle autorità e che nello stesso tempo verifichi ogni sapere per poterlo rigenerare dall’interno, non è possibile un vero avanzamento della storia, la creazione di un vero umanesimo.

Oggi si parla di trans-umanesimo, di una civiltà da cui l’uomo scompare per essere sostituito dalle macchine da lui stesso create, dotate perciò di un’intelligenza artificiale, o per essere “ibridato” con esse. Sarebbe paradossale che le macchine, create per essere utili all’uomo e alla sua missione nel mondo, cioè per aumentarne il potere, finissero per distruggere il loro inventore. Sono prospettive inquietanti e non auspicabili. In realtà, la storia del linguaggio e del ragionamento umano, che nascono insieme al pensiero e che ci servono per conoscere e comunicare la realtà, mostrano che questi scenari distopici sono impossibili. Se è vero ciò che ho detto all’inizio di queste conclusioni, non esiste una coscienza artificiale e nessuna macchina, perciò, potrà sostituire completamente l’uomo. Un mondo senza l’uomo non è un mondo post-umano, è un mondo disumano, un deserto che perde la sua ragion d’essere. Il mondo, infatti, è stato voluto e creato da Dio come giardino per l’uomo.

Ci sono ragioni logiche che confermano l’assoluta unicità e insostituibilità dell’uomo. Ma qui voglio ricordare che le ragioni logiche e spirituali confermano la concezione dell’uomo che nasce dal grande evento dell’Incarnazione. Se anche fosse possibile l’intera sostituzione dell’uomo con la macchina, almeno un uomo resterebbe non sostituibile: il Figlio di Dio fatto uomo, sottratto ora alla logica del tempo e dello spazio, ma non volatilizzato. Il corpo risorto di Cristo ci parla della perennità dell’uomo sulla terra e oltre la fine del tempo.

Ognuno dei passaggi che sopra ho brevemente descritto ha richiesto un salto prodigioso nel cammino dell’educazione. Intorno alla parola si è formata la scuola. Platone, nella lettera VII, parla del primato assoluto della comunicazione orale – vissuta nella convivenza guidata da un’autorità – come strada alla ricerca della verità. La parola scritta e stampata, direbbe oggi Platone, deve essere al servizio di questa struttura originaria del sapere che è la comunità in presenza (come si usa dire oggi) attorno a un testimone, ad una persona adulta (più per esperienza che per età) che vuole comunicare ad altri il tesoro che lo costituisce affinché a loro volta lo possano trovare e portare a frutto.

L’era tecnologica è perciò, più di ogni altra era, un tempo che necessita di educazione, soprattutto di educazione della libertà. Data l’invasività delle immagini e il rischio di chiusura in se stessi che la cultura dei social porta con sé, ciò che sopra ho descritto come rapporto educativo rivela più che mai la sua preziosità. Il nostro tempo, più di ogni altra epoca passata, dovrà essere il tempo di colui o colei che attraverso le proprie conoscenze riesce a veicolare il senso della vita e le strade per raggiungerlo. Viviamo pericolosamente in un momento in cui non esistono più né passato né futuro, ma solo l’istante presente. Questa affermazione, che sembrerebbe essere simile a quella fatta da Agostino nel libro XI delle sue Confessioni, ne è in realtà agli antipodi. Per il vescovo di Ippona, infatti, parlare del presente come momento unico del tempo non voleva significare né escludere la memoria, né cancellare la speranza, ma anzi racchiuderle tutte in un unico atto di coscienza presente. Comprendiamo così l’importanza fondamentale della scuola per i nostri anni, ma anche della comunità familiare e di ogni altra comunità: permettere al ragazzo e al giovane di conoscere il passato per poter decidere quali sono i rami secchi da tagliare e quali, invece, quelli vivi da innestare verso un nuovo frutto. In tutto ciò, scrittura e lettura hanno un posto paradigmatico: esse infatti, sempre, raccolgono in se stesse esperienze del passato, comprensione del presente e apertura a nuovi orizzonti.

Massimo Camisasca, Vescovo di Reggio Emilia