Intervista a Giulia Capotorto, in missione in Madagascar: “Mi lascio provocare da una cultura differente e preziosa”

Era circa un anno fa, il 21 ottobre 2017, quando nella Chiesa di Santo Stefano a Novellara, il Vescovo Massimo Camisasca celebrava la veglia durante la quale furono conferiti i mandati missionari a Giulia Capotorto, dell’Unità Pastorale S. Giovanni Paolo II, destinata dodici mesi ad Ampasimanjeva, Madagascar.

Costantemente in contatto con i riferimenti della Diocesi di Reggio Emilia, con i famigliari e con gli amici, Giulia sta svolgendo la missione, con cuore, passione e spirito cristiano. Chi l’ha sentita da Reggio Emilia in questi mesi ha avuto l’opportunità di condividere passo per passo il suo percorso, all’inizio arduo (dovuto principalmente alla lingua in loco), poi, piano piano sempre più lineare, fino a diventare un ricco ed entusiasmante bagaglio di esperienze e valori che Giulia si porta dentro e che Next Stop Reggio cerca di cogliere attraverso la seguente intervista.

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Giulia, nel mese di agosto ti sono stati affidati diversi reggiani per conoscere da vicino le missioni di Reggio Emilia in Madagascar. Che esperienza è stata?
Bella! Ho avuto la fortuna di accompagnarli in diverse “tappe” ed è stato proprio bello passare del tempo con loro, è stato come sovrapporre due mondi fino ad ora così lontani, e diciamo che hanno portato un po’ di casa anche qui. Abbiamo condiviso tanti momenti, hanno osservato molto, fatto domande, aiutato nei servizi, espresso i loro dubbi e abbiamo fatto anche delle grandi risate insieme. La loro curiosità mi ha obbligata a ripercorrere questi mesi, mi ha fatto riflettere su come li sto affrontando e le loro osservazioni mi hanno riportato un po’ a quello stupore e a quella meraviglia iniziale che con il tempo rischiano di perdersi.

Oltre a te ci sono altre missionarie per circa un anno?
Sì, siamo in tre volontarie (io, Giorgia e Chiara) e ci stiamo preparando per accogliere Ilaria. Essere in “tante” è una ricchezza. I momenti di condivisione insieme sono uno stimolo per riflettere sulla settimana, per fare emergere le difficoltà e per gioire insieme delle piccole soddisfazioni. E poi così anche i problemi e le fatiche vengono affrontati da diversi punti di vista che spesso portano speranza e coraggio!

Lì in Madagascar svolgi la tua missione al servizio di una scuola. Chi sono gli utenti?
Non si tratta proprio di una scuola, ma piuttosto di un luogo dove accogliere i figli dei malati ricoverati in ospedale e i bambini di Ampasimanjeva che per vari motivi non studiano più. Il nome della struttura è Centre Papillon. Ad organizzare le attività quotidiane è una signora malgascia, mentre io l’aiuto un po’ come posso, soprattutto nella gestione dei bambini, che sono circa 60. Tra quelli che vengono al mattino e quelli del pomeriggio, l’età varia dai 2 ai 13 anni e da qualche mese abbiamo deciso di dividerli in tre gruppi: i piccoli, quelli che stanno imparando a leggere e scrivere e quelli già “bravini”. Indipendentemente dall’età, il livello di alfabetizzazione è molto basso, e non vi nascondo che inizialmente per me è stato piuttosto difficile da accettare.

In che senso?
Nel senso che faccio fatica a comprendere il fatto che a 10 anni un bambino non sappia scrivere il proprio nome. E che per tutti qui è normale che sia così. Perché non si investe sull’istruzione? Perché ripetiamo per due ore i colori e i bambini continuano a non riconoscerli? Poi piano piano ho iniziato a capire che qui le priorità sono altre, soprattutto nelle famiglie più povere.

Quali priorità?
Ho visto che le bambine già da piccole iniziano a prendersi cura dei fratelli, a cucinare per loro, a sgridarli quando si fanno male e allo stesso tempo a confortarli per farli smettere di piangere, proprio come delle mamme. I bambini invece spesso aiutano gli uomini a pascolare gli omby (zebù) o a preparare il terreno per le risaie, ed è chiaro che nei momenti liberi preferiscono far volare un aquilone, costruire una macchinina di latta o fare qualche giro in bicicletta.
Ecco, diciamo che se all’inizio mi preoccupavo di dover fare, di programmare, di voler vedere risultati, ora sto iniziando a capire che a volte bisogna anche sapersi accontentare e che davvero non sono qui per fare, ma per lasciarmi toccare e provocare da una cultura così differente dalla nostra. Ed è quello che sto imparando anche con i tubercolotici e con le loro famiglie.

Con i tubercolotici? Non hai paura di contagi?
Assolutamente no! Non sono più contagiosi. Durante la settimana cerco sempre di ritagliarmi dei momenti per stare con loro.

Ci tieni molto…
Sì, moltissimo. Non so bene perché, ma proprio con loro riesco ad essere così serena e così me stessa, tanto da dimenticarmi, a volte, di essere una vazaha (straniera) e allora ne approfitto un po’ per conoscerli meglio. Sto davvero imparando tantissimo. Mi insegnano parole del dialetto antaimoro (l’etnia che vive in questa zona del Madagascar), mi spiegano alcuni dei loro fomba (tradizioni) e dei loro fady (tabù), mi fanno conoscere un po’ di geografia raccontandomi da dove provengono, mi insegnano a pulire gli ampalibe (frutto che matura in questo periodo), mi fanno ascoltare le canzoni del momento, mi mostrano come realizzano quei bellissimi cappellini di rafia che portano in tanti e mi fanno vedere come in cinque minuti le donne riescano a riempire di treccine la testa di qualunque malgascio. E più imparo e più mi sento accolta.

Condividi la tua missione anche con le suore, che hanno fatto una scelta di vita precisa.
Le mitiche masere (“suore” in malagascio) oltre a prepararci tutti i giorni degli ottimi pasti (potrebbero davvero aprire un ristorante!), ci accompagnano con la preghiera e con tante chiacchiere. Spesso ci fanno riflettere su quello che non capiamo, ci danno consigli preziosi, ci confortano quando siamo un po’ malinconiche: davvero un esempio. L’attenzione che hanno verso i poveri e i malati, il loro prendersi cura dei più piccoli e la loro instancabilità sono qualità difficili da trovare, in qualunque paese, e dalle quali speriamo di essere un po’ contagiate anche noi.

Dal tuo racconto trasmetti molto entusiasmo. Ma è tutto sempre rose e fiori?
No non sempre. Con la lingua malgascia non è sempre in discesa: tante espressioni sono per me ancora dei misteri (anche se dopo tanto allenamento finalmente riesco a fingere abbastanza bene di aver capito) però per fortuna nelle conversazioni di tutti i giorni un po’ riesco a farmi a capire, e alla fine è questo quello che conta no? Inoltre certe linee di pensiero qui molto comuni faccio fatica a condividerle, e alcuni comportamenti sono ancora difficili da accettare, ma perché forse giudico sulla base di quello che vedo, mentre spesso c’è qualcosa dietro che giustifica un certo modo di fare, ed è quello che spero di riuscire a trovare nei prossimi mesi.

Il fatto di avere il colore della pelle bianca, e quindi una cosa rara in Madagascar, come la vivi?
La vivo come un’etichetta che troppo spesso mi sento attaccata in fronte dagli sguardi della gente e che mi fa tanto dispiacere: bianco=soldi. E la cosa che forse più mi fa arrabbiare è che non riesco a ribattere, perché è vero che noi in confronto siamo “ricchi”, però io cosa posso farci? E allora provo a parlare con chi mi chiede soldi: chiedo da dove vengono, quanti figli o fratelli hanno… e loro mi rispondono, stupiti di vedere ogni tanto un bianco che prova a parlare in malgascio.

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