“Il 7 luglio non sia più un giorno di divisione. Si incontrino i famigliari di tutte le vittime”. Di Marco Eboli, ricordando il padre Paolo, poliziotto ferito durante gli scontri

Paolo Eboli

Scrivo oggi sui tragici fatti del 7 luglio 1960,quando in seguito agli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti, morirono 5 persone e vi furono diversi feriti tra le forze dell’ordine, perché voglio evitare di sovrappormi alle celebrazioni che vi saranno quel giorno.

I prodromi di quell’esito tragico erano stati preceduti dagli scontri di Genova ove la sinistra impedì la celebrazione del congresso del MSI, anche là vi furono diversi feriti.
La manifestazione del 7 luglio 1960, non autorizzata, fu organizzata, prevalentemente dal PCI per protestare contro il Governo monocolore del democristiano Tambroni, che aveva avuto il voto di astensione del MSI, da qui la propaganda di sinistra agitò lo spettro di un rischio di ritorno al fascismo, morto e sepolto da 15 anni.
La motivazione della sinistra era strumentale perché il MSI aveva già dato il proprio voto a Governi monocolore democristiani quali Zoli nel 1957, Segni 1959 e Tambroni 1960, senza che prima di allora vi fossero scontri di piazza.

In quel periodo erano però in atto manovre politiche all’interno delle correnti democristiane e nella sinistra che dovevano portare ad un cambiamento politico, che i fatti successivi alla caduta del Governo Tambroni, dimostrano, ma che per scelta non intendo citare.

L’obiettivo di queste mie riflessioni è prioritariamente quello di testimonianza di un figlio di una vittima dei fatti del 7 luglio 1960. Quel giorno, mio padre Paolo, poliziotto, che precedentemente aveva fatto il partigiano sulle colline natie di Lugagnano Val d’Arda, nel piacentino, era in piazza a svolgere il suo servizio a difesa dello Stato democratico. Il clima che si respirava in città era da coprifuoco. Mia madre, incinta di me, fu invitata da una signora a correre a casa perché qualcosa di brutto sarebbe accaduto.

Dopo schermaglie tra forze dell’ordine e manifestanti si udirono i primi colpi di arma da fuoco e a sparare, secondo il successivo racconto di mio padre, non furono solo le forze dell’ordine. Il bilancio della giornata fu di 5 morti tra i manifestanti e diversi feriti tra le forze dell’ordine. Dopo qualche tempo, mio padre subì un’aggressione ed in seguito, avendo ricevuto diversi colpi in testa, perse la vista a poco più di 40 anni, condizione che mantenne sino al 2015 quando morì. Dopo i fatti del 7 luglio 1960.
I poliziotti furono chiamati dispregiativamente, dalla sinistra”scelbini”, dal nome del Ministro degli Interni del Governo Tambroni, Scelba. La vita, a Reggio Emilia, soprattutto per chi come noi viveva in un quartiere popolare non fu facile, per molti anni.

Le ragioni per le quali ho deciso di scrivere queste riflessioni risiedono nella volontà di contribuire a far sì che quella data non venga strumentalmente usata dagli eredi del PCI come un giorno in cui si salvò la democrazia. Quest’ultima fu salvata con le elezioni del 1948 quando la vittoria delle forze moderate con l’appoggio della destra, sconfissero le sinistre, scongiurando il pericolo che l’Italia, a dispetto degli accordi di Yalta, finisse sotto il giogo comunista sovietico, di cui l’Europa dell’Est si liberò nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino. Concludo con un invito e una proposta.

Marco Eboli

L’invito, da iscritto all’associazione Nazionale Polizia di Stato, cui è iscritto anche mio fratello Aldo, è al Prefetto ed al Questore, affinché il prossimo 7 luglio, nel corso delle celebrazioni ufficiali, ricordino anche i poliziotti e i danni che, come nel caso di mio padre, dovettero subire, per difendere lo Stato democratico. La proposta è rivolta ai familiari dei manifestanti uccisi, affinché, in forma privata vi possa essere un incontro tra noi, consapevoli che loro hanno pianto per 60 anni i loro cari, mentre la mia famiglia e mio padre in prima persona abbiamo portato la croce di una menomazione a vita. Entrambi, loro e noi, vittime di disegni politici.

Marco Eboli