Famiglia. E’ questo il tratto distintivo di ICE Spa (Industria Chimica Emiliana), nata 70 anni fa a Reggio Emilia da un’intuizione imprenditoriale che ebbero i coniugi Walter e Ida Bartoli e che oggi, dopo esser stata guidata dai figli Enzo e Maurizio, viene ceduta al fondo americano Advent International.
Famigliare è l’ambiente che accoglie i visitatori nella sede in città in zona quartiere Ospizio, un tempo casa dove sono nati e cresciuti i Bartoli. Famigliare è l’ufficio dell’Amministratore Delegato Enzo Bartoli che, mentre risponde alle chiamate provenienti da Giappone, Stati Uniti, Brasile, India ecc, osserva crescere la splendida collezione frutto di una passione nata in India, di numerosi elefantini esposti nella libreria che un tempo fu del papà Walter.
Stile famigliare anche quello dei dipendenti, che salutano con un sorriso spontaneo, segno evidente di uno stato di benessere; non a caso in 70 anni non sono mai state organizzate contestazioni sindacali, né sono state costituite RSU: qualsiasi problematica veniva sempre gestita e risolta internamente come avviene in una grande famiglia.
Probabilmente anche questi valori sono stati le fondamenta del successo di ICE che, con un fatturato di 20 milioni di vecchie lire e 2 dipendenti nel 1974, conta oggi 1.000 dipendenti fra Italia, USA, Brasile, India, Argentina, Uruguay, Paraguay, e un bilancio consolidato di circa 230 milioni di euro. Un gioiello made in Reggio Emilia, oggi protagonista di successo nelle cronache finanziarie internazionali a seguito dell’acquisizione da parte di Advent International.
Per conoscere più da vicino la storia della ICE, abbiamo intervistato l’Amministratore Delegato Dott. Enzo Bartoli.
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Dott. Bartoli, quando e come nasce l’azienda ICE?
ICE nacque nel 1949 proprio qui (ndr, sede della ICE, in via Sicilia 10), un tempo era anche la casa dove siamo vissuti con la famiglia. Mio padre Walter aveva due lauree, una in chimica e una in farmacia, e insieme a mia madre Ida ebbe l’idea fortunata di produrre acidi biliari in questa piccola fabbrica che avevano organizzato. Di fatto crearono una sorta di “Aspirina2”, ovvero un prodotto valido nel tempo e per diverse tipologie di malesseri: nel settore farmaceutico avviene sempre un certo ricambio, con prodotti che vanno di moda e poi vengono sostituiti da altri, il nostro invece, da quando è nato, ha sempre avuto un trend in crescita e, molto probabilmente, continuerà ancora ad averlo.
Di che prodotto si tratta?
Si tratta dell’Acido Ursodesossicolico, che dà origine a varie specialità farmaceutiche per curare il fegato, la più famosa si chiama “Deursil”.
Torniamo a ICE. Come si è evoluta negli anni?
Dopo la nascita, per alcuni anni l’azienda non ebbe particolari sviluppi. Poi, nel ’74, io e mio fratello Maurizio entrammo in azienda e, in concomitanza con l’interruzione della produzione di acidi biliari da parte della ditta Recordati di Correggio, visto che il mercato risultava debole, puntammo all’espansione nel settore. Il successo vero e proprio si realizzò con l’avvento dei primi quantitativi dell’ “Acido Ursodesossicolico” che, appunto, è un prodotto utile per il fegato. Ma l’anno di svolta fu il 1996, quando decidemmo di costruire una nuova fabbrica in Brasile considerando che la produzione qui, nella fabbrica della Ice di Reggio Emilia, non era più sufficiente.
Perchè il Brasile?
Perchè il Brasile era allora il principale mercato di produzione della nostra materia prima: la bile bovina. Dal Brasile proseguì il percorso di espansione: nel 2000 comprammo la Roth Products of Texas, un importante raccoglitore di materia prima; nel 2008 acquisimmo il nostro concorrente più forte PCA (ndr, azienda con sede a Basaluzzo, Alessandria) e da lì la nostra espansione decollò ulteriormente con la vendita dei nostri prodotti sui nuovi mercati diffondendosi in tutto il mondo, in particolare negli Stati Uniti e in Giappone, dove siamo il numero uno.
Fare impresa comporta anche dei rischi: ci sono stati momenti di particolari difficoltà?
Sì, sicuramente la partenza in Brasile è stata molto complicata in quanto, essendo un paese nuovo, andammo in un certo senso un po’ allo sbaraglio con impegni economici importanti, senza avere la certezza che la cosa avrebbe funzionato. Anche lo sbarco in India non è stato facile: dovevamo trasferire la tecnologia agli indiani, ma i prodotti non uscivano e non sempre risultavano buoni dal punti di vista tecnico. Poi facemmo una joint venture con una fabbrica nuova e la partenza fu comunque complicata, ma alla fine andò molto bene.
Oggi ICE viene venduta per circa 700 milioni di euro. Quando ha origine la cessione?
Parte dal 2017, quando si fecero avanti diversi fondi interessati. Successivamente, alla fine del 2018, ci siamo avvalsi della società “Pricewaterhouse” che organizzò una sorta di offerta per manifestazione di interesse alla quale partecipò il fondo Advent International.
Perchè, dopo aver raggiunto successo in tutto il mondo, la scelta di terminare l’esperienza imprenditoriale di ICE?
Io e mio fratello non siamo più giovanissimi e dovevamo pensare al futuro della società, considerando anche che si sta chiudendo un ciclo e si devono affrontare sfide diverse: per dare nuovi impulsi all’azienda ora è necessario agire per acquisizioni strategiche al fine di creare un gruppo più forte, cosa che Advent ha intenzione di fare.
Da non sottovalutare inoltre che la nostra materia prima ha avuto continui ed importanti aumenti di prezzo che sono ricaduti sul prodotto finito, che si sta rivelando troppo caro per le aziende farmaceutiche, aziende che, a loro volta, sono sottoposte a controlli dei prezzi dalle organizzazioni sanitarie di ciascun paese che al contrario sostengono politiche di diminuzione degli stessi. Non da ultimo, la concorrenza cinese inizia a farsi sentire.
Ci sarà continuità con i nuovi proprietari?
La cessione è stata fatta anche nell’interesse dei nostri dipendenti: ci sta a cuore che possano trovarsi bene anche con la nuova proprietà che forse sarà più fiscale e meno “famigliare” rispetto a quanto erano abituati. Qui infatti ci siamo sempre sentiti un po’ “famiglia”.
A proposito dei dipendenti, quanto sono stati importanti?
Sono stati non solo importanti, ma fondamentali, in un rapporto di fiducia e dedizione unici. Pensi che ce ne sono quattro che lavorano qui da quando si sono diplomati, altri che sono andati in pensione e altri ancora che sono qui da 18-20-30 anni. Abbiamo un gruppo di ragazzi davvero bravi e motivati che ci hanno sempre affiancato, ai quali va di certo un riconoscimento importante, tanto che stiamo pensando di assegnare un premio-regalo proprio per quanto hanno dato all’azienda.
Un gesto raro che sarà sicuramente gradito, di cosa si tratta?
Non posso dirlo ora, sarà una sorpresa… penso -e spero- che rimarranno contenti.
Da oggi in poi cosa farà? Difficile immaginare Enzo Bartoli fermo…
Innanzitutto va detto che abbiamo venduto tutto, tranne una piccola società che si chiama “Bar Farmaceutica” , che oggi sta registrando un farmaco nuovo per la cura del fegato grasso. Attualmente siamo nella fase di registrazione del farmaco: ci vorranno ancora circa 5 anni e potrebbe diventare una nuova impresa di successo.
In secondo luogo stiamo portando a termine la ristrutturazione del Borgo di Riverzana a Canossa dove daremo vita a un agriturismo di qualità con produzione di prodotti biologici.
Marina Bortolani, @nextstopreggio