Da Reggio a Parigi, è oggi attrice teatrale di successo. Intervista a Marina Meinero

La storia di Marina Meinero è da raccontare. Eclettica, indipendente, piena di vita e con un carattere forte di chi sa cosa vuole (ndr, non a caso fra i suoi hobby sportivi svetta il pugilato che pratica da diversi anni), è oggi un’artista completa e di successo.  Nata e cresciuta a Reggio Emilia, ha frequentato il Liceo Moro diplomandosi lo stesso anno della maturità (il 2004) in violino all’Istituto Achille Peri. Laureata in lingue, non ha seguito le orme dei genitori, entrambi medici, scegliendo la strada della passione per la recitazione teatrale che è diventata anche la sua professione.  NextStopReggio l’ha incontrata.

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Marina, quando è scoccata la prima scintilla per la recitazione?

L’anno della maturità ho incontrato per la prima volta il teatro, frequentando un corso tenuto da Gigi Tapella al Piccolo Teatro dell’Orologio: quello è stato il momento chiave della mia vita.

Figlia unica di due medici, avevi superato le selezioni a numero chiuso per frequentare l’Università di Medicina, ma ad un certo punto hai scelto di non seguire le orme dei tuoi genitori. Cos’è successo?

Era l’estate del 2005, avevo appena finito il primo anno di medicina a Modena. Il mio insegnante di teatro mi propose di partecipare alla creazione di uno spettacolo internazionale in un festival francese. Trascorsi quindi un mese a provare in una cava di ghiaia e 15 giorni a recitare. Non avrei più voluto tornare a casa. Da quel giorno, ho lasciato medicina e ho iniziato a cercare di trovare la strada giusta per diventare un’attrice. È stato anche il mio primo contatto con la Francia, che fino a quel giorno era per me, un paese come un altro.


Che tipo di percorso avevi seguito in Italia?
In Italia ho studiato a Reggio Emilia con Gigi Tapella, poi ho voluto spingermi verso il professionismo, quindi ho passato le audizioni in diverse scuole italiane. Sono stata presa al corso propedeutico alla Paolo Grassi di Milano e, pochi mesi dopo, alla scuola Galante Garrone di Bologna, dove mi sono diplomata nel 2010. Appena uscita da scuola, ho iniziato a lavorare con un regista di Modena, Tony Contartese, ma mi sono resa conto che sarebbe stato molto difficile farne una vera professione.

Ciò nonostante, decidi comunque che la tua passione sarà anche la tua professione. Famigliari e amici cosa ti hanno detto quando hai assunto la decisione?

Nel momento stesso in cui ho deciso di lasciare medicina, non ho più visto il teatro come una passione, ma come il mio futuro lavoro. Nonostante mi sia laureata in Lingue, il mio obiettivo è sempre rimasto la scena. Mio padre ci mise un po’ ad accettarlo, ma oggi è quello che mi supporta maggiormente. Mia madre invece era molto felice che lasciassi medicina: diceva che l’ambiente medico di oggi non avrebbe fatto per me. I miei amici, quelli veri, l’avevano capito ancor prima di me che la mia professione era su un palco e non in una sala operatoria…

Dall’Italia sei approdata a Parigi, perché?
Sono arrivata a Parigi non tanto per scelta, ma seguendo una serie di fortunate coincidenze. Nel primo festival a cui ho partecipato in Francia, mi sono innamorata di un attore francese. Due anni dopo, con il progetto Erasmus, l’ho raggiunto a Parigi dove la storia è finita, ma ho iniziato a frequentare un corso di teatro all’interno dell’Università Paris 7. Due anni dopo, nonostante fossi in Italia, i miei compagni avevano bisogno di un’attrice per partecipare al Festival di Avignone e mi hanno chiamata. Fu in quella occasione che conobbi colei che poi è diventata la mia metà professionale: Flora Donars.

Poi, la spinta per ritornare in Francia definitivamente me l’ha data Mario Gonzales, insegnante di maschera, che dalla scuola di Bologna, mi ha portato con sé in Francia, preparandomi per farmi entrare al Conservatorio Nazionale di Arte Drammatica di Parigi, che ho frequentato per un anno nel 2010/2011.

In Italia non avresti avuto le medesime opportunità?
Lavorando in contemporanea a Parigi e in Italia, la differenza fra i due sistemi lavorativi era evidente. Finito il conservatorio, decisi di rimanere a Parigi, mantenendo comunque rapporti con l’Italia.

In Francia hai fondato nel 2015 insieme ad altre due ragazze la compagnia teatrale “Le MèME EnsembLe”. Com’è nata l’idea?

Sia dall’Italia che da Parigi, ho sempre coordinato e organizzato progetti sul posto (corsi di teatro tenuti insieme a Flora Donars, lezioni nelle scuole, ecc) e all’estero (un laboratorio estivo internazionale, progetti e creazioni in collaborazione con università e compagnie straniere). Nel 2015, avevo bisogno di una struttura per poter rendere più ufficiali i progetti e, perché no, poter accedere a finanziamenti . Con Flora, quindi, decidemmo di fondare il MèME EnsembLe.

Quali risultati sta ottenendo la vostra compagnia teatrale?

La compagnia, in tre anni di vita, ha all’attivo una creazione per ragazzi (Octavie) presentata a Parigi, Ginevra, Betlemme e Bucarest, 2 corsi per adulti, una collaborazione con il Festival Rendez-vous chez nous in Burkina-Faso e vari progetti di teatro nelle scuole delle zone ad educazione prioritaria della periferia Parigina. Quest’anno si concluderà la creazione italo-francese di Segni, spettacolo sulle nuove tecnologie, diretto dal regista Alessandro Maggi e musicato da Altre Voci Ensemble.

In tutto questo riesci a coltivare anche il nobile sport, il pugilato, che pratichi costantemente da diversi anni. Come si concilia con la tua vita?

È uno sport fantastico per un’attrice, perché racchiude un training molto simile alla preparazione per la scena: tanto fiato, tanta concentrazione, movimento completo del corpo e una grande attenzione verso il proprio partner. Ogni volta che un progetto mi porta a vivere in una nuova città per qualche tempo, cerco sempre una palestra da frequentare per qualche lezione (ndr, quando è a Reggio non manca mai di frequentare la palestra della Boxe Tricolore Reggio Emilia seguita dai maestri Michael Galli e Massimo Bertozzi, nella foto di fianco durante un allenamento in palestra)

Ti sei recata più volte anche in Palestina dove hai lasciato il “segno” della tua arte.
Sono stati i mie genitori a trasmettermi l’interesse per la Palestina. Entrambi, per ragioni diverse, hanno viaggiato e lavorato in questo paese sin dal 1975. Quando ho iniziato a lavorare nel teatro, ho subito cercato di contattare alcuni gruppi teatrali palestinesi. L’Al Harah Theater, compagnia gestita da Marina Barham, è stato quello con cui ho collaborato sia come attrice che come musicista. In seguito, lavorando molto con i bambini e con i giovani, e specializzandomi nella pedagogia, ho potuto organizzare alcuni corsi per i loro giovani insegnanti, per aiutarli nella gestione dei gruppi di bambini e pre-adolescenti.

Cosa che hai fatto anche recentemente insegnando recitazione ai bambini in Palestina. Che esperienza è stata?

Quest’anno per la prima volta ho effettivamente avuto la possibilità di lavorare con i bambini e i ragazzi di un coro

composto da 60 elementi. Fare lezione mescolando l’arabo, l’inglese e i gesti, vedere la crescita dei gruppi in soli tre giorni di lezioni e la soddisfazione degli organizzatori nel notare i progressi sulla scena, hanno reso questa esperienza indimenticabile. Mi piacerebbe molto poterla ripetere, magari avendo a disposizione qualche giorno in più.

Cosa significa per te fare l’attrice?

Fare l’attrice, per me, è lavorare sodo. Imparare i testi a memoria, prepararsi fisicamente e vocalmente per essere in grado di portare un personaggio, una storia, un’emozione, un’idea, essere al servizio di un-a regista o di un gruppo di lavoro. Fare l’attrice è fare il lavoro che amo, nonostante questo comporti anche tanti compiti ingrati che non hanno niente a che vedere con la scena (burocrazia, organizzazione, pubblicità, contabilità… Siamo delle tutto fare, in fondo). Ma quando si va in scena tutti i sacrifici e difficoltà scompaiono.

Marina Bortolani, @nextstopreggio.it