“Cari genitori, vado a morire, uccidono me, ma non l’idea”: ricordato oggi il Partigiano comunista Davoli “trucidato dai fascisti”

“Cari genitori, vado a morire, la mano non mi trema, non pensate a me, uccidono me, ma non l’idea. Evviva la libertà. Vostro Paolo”.
Questo è l’ultimo messaggio del partigiano Paolo Davoli ai genitori, scritto su un biglietto che venne ritrovato tra i suoi abiti, quando il suo corpo era già al cimitero, dopo la fucilazione avvenuta alle 3 del mattino, il 28 febbraio 1945.
Queste parole sono impresse sulla sua tomba, nella cripta al cimitero di Cavazzoli, dove Paolino riposa con gli altri martiri Daniele Fontana, Enrico Foscato ed Ernesto Spallanzani.

E proprio oggi 28 febbraio i comunisti reggiani, insieme alla sezione di Patria Socialista ed al segretario reggiano Matteo Neri, hanno portato i garofani rossi per ricordare, nell’anniversario, una delle più belle ed importanti figure della Resistenza reggiana. Paolo Davoli era un sarto di Cavazzoli, tra i primissimi antifascisti reggiani, faceva parte del gruppo dei Giovani Escursionisti Reggiani insieme a Cesare Campioli che diventerà sindaco della Liberazione ed al mio bis nonno falegname Arnaldo Manghi che, dopo la morte, avrà il doloroso compito di mettere insieme le assi per la bara del povero Paolino.

Fu tra i fondatori del Partito Comunista di Gramsci, partigiano, comunista e per questo perseguitato, protagonista della ventennale attività politica in ruoli di direzione tanto in Italia come in Francia. Sertorio era il suo nome di battaglia nella Resistenza, Intendente del Comando Piazza e dirigente del PCI, venne arrestato nei pressi della sua abitazione il 30 novembre 1944, da quel giorno, quello a cui verrà sottoposto sarà un autentico calvario.

Detenuto alla famigerata Villa Cucchi, venne più volte battuto con verghe di metallo, ustionato gravemente con il ferro rovente sulle cosce e sulle antiche, che gli procurarono l’abbassamento della carne di un paio di centimetri. Subì la tortura con la corrente elettrica. Non sopportando più i tormenti e approfittando di un attimo di distrazione dei suoi carnefici italiani in camicia nera, si buttò dalla finestra della latrina di Villa Cucchi fratturandosi una gamba.
Fu ovviamente ripreso, torturato nuovamente in modo inumano, la gamba fratturata e lasciata senza cure, iniziò ben presto ad andare in cancrena, procurandogli spasmi assai peggiori della tortura.

Gli aguzzini neri lo volevano però vivo, venne così inviato alla caserma “Muti” per amputargli l’arto, dopo aver approntato appositamente una stanza a sala operatoria. Paolo Davoli venne fucilato per rappresaglia il 28 febbraio 1945, tra Cadelbosco e Santa Vittoria, assieme ad altri 9 patrioti comunisti. Persino in montagna giunse la notizia della sua morte e delle atroci torture subite, provocando lo sdegno dei partigiani e giusti propositi di vendetta.

Paolo Davoli verrà orrendamente sfigurato da morto, rendendolo irriconoscibile, i fascisti italiani “brava gente” gli sfondarono il cranio col calcio del fucile, perché di fronte al plotone di esecuzione esortò i compagni a cantare Bandiera Rossa, la sorella Ondina potrà riconoscerlo per la cicatrice che aveva sotto al mento e perché era ricoperto dal panno della famiglia che aveva in carcere e che portava il suo nome.

Ricordare la storia dei partigiani come Paolo Davoli è oggi ancor più doveroso, perché è palese la volontà politica di sovvertire la storia, di intorpidire la storia, di sminuire le responsabilità storiche, politiche e morali degli italiani fascisti, del fascismo, di Mussolini e di tutta la sua cricca. Compresa l’ipocrisia della “pacificazione” e della “memoria condivisa”, che trova sponda, come abbiamo visto recentemente, tra amministratori e istituzioni.

Alessandro Fontanesi