Sono ormai dieci anni che alcuni familiari delle vittime e alcuni ex “brigatisti rossi” stanno compiendo (tra incontri pubblici e tappe nelle scuole) un cammino comune sulla “giustizia riparativa” che parte da un reciproco rispetto e dal ripudio della violenza.

È l’altra faccia della medaglia di quei giorni e di quegli “anni di piombo”. Se da una parte, inevitabilmente, c’è ancora soprattutto il dolore; se le diffidenze e le polemiche sono ancora comprensibilmente presenti nell’opinione pubblica, è però giusto ed importante sottolineare che c’è chi, da una parte e dall’altra, ha fatto la scelta di andare oltre e farlo insieme.

E quel cammino ha fatto tappa a Parma. Giovanni Ricci, figlio di Domenico appuntato dei carabinieri ucciso in via Fani durante il sequestro di Aldo Moro, Giorgio Bazzega, figlio del poliziotto Sergio, colpito a morte nel 1976 da Walter Alasia, e Adriana Faranda, ex brigatista della colonna romana e parte attiva durante il sequestro Moro, hanno tenuto un convegno presso la sede provinciale della Cgil.

“Con questo incontro nessuno vuole riscrivere la storia, il nostro giudizio sull’esperienza delle BR è noto e immutabile” premette il segretario della Cgil di Parma Massimo Bussandri. “Questa sera vogliamo favorire il dialogo e ancora una volta dire no alla violenza, proprio in tempi come quelli attuali nei quali in politica essa sta tornando forte e inaudita tanto nel linguaggio quanto negli atti che dalle parole poi scaturiscono.”

Interviene Adriana Faranda, che fu una dei pochi brigatisti che si schierò contro l’uccisione di Aldo Moro, prima di uscire dall’Organizzazione. Di seguito i passaggi più significativi del suo intervento.

Fallimento e mancanza di coraggio
In quegli anni stava cambiando la società, stava arrivando le tecnologia. Noi fummo l’ultima propaggine del vecchio mondo. Quello che rimprovero alle BR è di non avere avuto il coraggio e intelligenza di sperimentare strade nuove. Ci siamo limitati a seguire quelle vecchie con in testa l’idea della violenza, della Rivoluzione come purificazione e tutta la retorica rivoluzionaria del ‘900. Noi scrivevamo sui muri delle Università “l’immaginazione al potere”, ma di immaginazione non ne abbiamo avuta. Il vero coraggio non è impugnare un’arma e mettere a repentaglio la propria vita, ma rischiare strade inesplorate, senza ripercorrere quelle fallimentari che storicamente hanno visto le esperienze rivoluzionarie concludersi in totalitarismi. Oggi rifuggo ogni forma di violenza, che mi fa inorridire.

Il contesto
Non cerco giustificazioni per quanto ho fatto, non l’ho mai fatto. Ciò premesso, le Brigate Rosse nacquero negli anni ’70 in un contesto politico-sociale ben preciso. Ricordo “l’autunno caldo” in cui volantinavamo davanti alla Fiat e partecipavamo ad assemblee così cariche di rabbia e disagio. Un passaggio per noi fondamentale fu l’attentato a Piazzale della Loggia a Brescia, prima ancora che a Piazza Fontana, quando una bomba uccise otto persone mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. Quella fu una vera e propria dichiarazione di guerra contro la democrazia e contro i lavoratori. All’epoca pensai che la strada democratica fosse perdente. Teniamo conto che il primo omicidio delle BR nel ’76 fu preceduto da più di cento morti per stragi imputabili alla destra eversiva (l’83%). Questa parte della storia dell’Italia è stata rimossa. In un contesto del genere erano possibili, non giustificabili, atti come quelli compiuti dalla BR.

Lotta armata
Per intraprendere la lotta armata ha lasciato mia figlia. Lei non sapeva nulla di quello che stavo facendo. Neppure mia madre, che quando mi vide in Tribunale mi disse: ‘Sei innocente, lo so, prenderemo il migliore avvocato che ti tirerà fuori’. Ma io ero colpevole, glielo dissi: non ho mai ucciso nessuno fisicamente, ma facevo parte a tutti gli effetti dell’Organizzazione. Dopo l’uscita dalle BR fui arrestata. Quella cattura fu per me, paradossalmente, una liberazione perchè mi consentì di uscire dalla latitanza, di riabbracciare mia figlia e mia madre, di tornare a studiare. Quell’appartenenza e quei vincoli collettivi imposti dalle BR erano diventati per me troppo pesanti.

Dissociazione e “giustizia riparativa”
Insieme ad altri abbiamo dato vita alla critica alla lotta armata, poi ci dissociammo da essa, come fece, in blocco, Prima Linea. La nostra dissociazione fu etica, non opportunistica. In carcere ero un fascicolo, il reato che avevo commesso. Ma le persone che avevo ferito lì non c’erano. Anzi, attraverso i loro avvocati, nei tribunali erano ancora i nostri nemici. Anche una volta espiata la pena, ti senti in debito, e ciò si traduce nel voler essere in contatto con i figli delle vittime del terrorismo per colmare il danno che hai loro creato. E’ questo il motivo che ci ha spinto a intraprendere questo percorso di dialogo con i figli delle vittime. Ci conosciamo, troviamo, discutiamo, viviamo insieme per intere giornate. Quegli anni hanno segnato le nostre vite e, purtroppo, quelle dei nostri famigliari. Vogliamo vivere, non sopravvivere. E questo lo possiamo fare solo con il confronto, grazie al rispetto e alla comprensione reciproci.

Nei prossimi giorni pubblicheremo anche gli interventi dei figli delle vittime Giovanni Ricci e Giorgio Bazzega.

Redazione Nsr

Nella foto Adriana Faranda, tra i figli delle vittime Giovanni Ricci (figlio di Domenico appuntato dei carabinieri ucciso in via Fani durante il sequestro di Aldo Moro) e Giorgio Bazzega (figlio del poliziotto Sergio, colpito a morte nel 1976 da Walter Alasia). A sinistra Franco Bonisoli, che in via Fani ha sparato.